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sabato 6 gennaio 2018

Questa non è un'esercitazione




Questa non è un'esercitazione, Inter.
Adesso va capito che così non è più sufficiente, che la squadra titolare così ben inserita nelle logiche di un campionato che si è mangiata per qualche mese sta perdendo i pezzi e non solo non ci sono i pezzi di ricambio, ma molto spesso mancano anche le toppe.
Adesso va capito che l'artiglieria è scarica, le munizioni non arrivano e i fucili fanno cilecca mentre, come a Firenze, ci trinceriamo nella speranza di schivare i colpi senza troppe chance di ribattere.
Non c'è da scherzarci, Inter: in questa fase si prenotano i piazzamenti finali e non si può dire che non lo sapevamo, che dobbiamo sempre barcamenarci, che dobbiamo sempre arrangiarci, reinventarci, giocare d'azzardo ancora una volta.
Questa non è un'esercitazione.

L'undici titolare vale il quarto posto? Sì e non ho dubbi. L'idea di calcio è buona, gli interpreti sono all'altezza, l'Inter al completo e in condizione suona una musica che non ha forse la delicatezza dei violini, ma ha certamente la potenza delle percussioni e di un assolo di Stratocaster: tanto basta per portarsi a casa il concerto.
Le cose però non stanno più così: l'Inter ha perso i pezzi, molti di quelli che ha mantenuto sono ai minimi termini, chi a livello fisico e chi a livello mentale.
Prendete Perisic: il fatto che non si percepisca nemmeno una sua idea di saltare l'uomo dice tutto su come mente e gambe non stiano assolutamente comunicando tra di loro. E' un problema su cui ha piena responsabilità Perisic? O è la mancanza di un'alternativa ad esporlo a chiacchiere e critiche?
Se penso a come giocava El Shaarawy nella Roma a fine ottobre e a come gioca adesso, trovo la risposta: la condizione non è uguale tutto l'anno e seguendo l'esempio del Faraone, ci deve essere a un certo punto un Perotti che toglie le castagne bollenti dal fuoco a chi è stato incisivo fino a quel momento e a un certo punto non riesce più ad esserlo.
E non si può abbozzare ancora a lungo, né fare finta che non possa accadere ancora sia a Perisic che ad altri titolari. Perchè poi si vede quando alterni Candreva, inventandoti Joao Mario al suo posto, che tra le riserve manca completamente la progettualità tecnica.


Questa non è un'esercitazione, è qualcosa di molto più importante.
Nel corso del match contro la Fiorentina ho visto un'Inter che a baricentro alto perdeva tutte le distanze dietro e soprattutto sulla trequarti in cui per 45 minuti hanno banchettato a turno i vari Chiesa, Benassi, Simeone, Veretout.
Poi ho visto altri 45 minuti in cui l'abbassamento del baricentro ha messo una pezza sulla trequarti, ma ha affidato l'attacco a ripartenze estemporanee e disorganizzate: non è stato mai possibile vedere una doppia fase fatta bene, ad eccezione di chi ci ha provato con generosità come Cancelo e Borja Valero, non a caso gli stessi che erano emersi contro la Lazio.
Trincerandosi negli ultimi 25 minuti di partita, ho intuito abbastanza in fretta la grossa anomalia che stava per prendere forma: non c'era alcuna possibilità di controbattere l'assedio, nessuna. Non c'era un contropiedista affidabile, un frangiflutti, un giocatore abile a portar su la squadra per prendere fallo e giocare col cronometro, non c'era un jolly da utilizzare per costruire un modulo più consono, un corazziere da inserire per prevenire le minacce dei duelli aerei.
Non c'era nulla: c'era la Fiorentina con cinque offensivi in campo tutti assieme, con Astori a fare il trequartista e c'era dall'altra parte l'Inter raccolta in venti metri, a volte quindici, con Santon ultimo baluardo fuori ruolo, una difesa dai meccanismi completamente improvvisati causa interpreti inediti e qualcuno che solo riuscendo a ripartire a testa bassa avrebbe trovato comunque il modo di mettere un compagno in condizione di segnare nella steppa sconfinata che la Viola aveva lasciato nella sua trequarti.
E se al posto di Candreva ci fosse stato un uomo più in confidenza con la porta, oggi probabilmente queste cose le staremmo dicendo col tono del pericolo scampato ma da non sottovalutare.
E invece no, non l'abbiamo sfangata e il problema filosofico sta tutto qua: l'Inter deve essere costruita per chiudere una partita, non per sfangarla di continuo.
Non possiamo sperare, pregare, improvvisare, reggere l'emergenza ancora a lungo e soprattutto non avremmo dovuto farlo ieri sera, quando i tre punti valevano anche la possibilità di ricevere la Roma con almeno due punti di vantaggio.


Ora che siamo nel vivo e che i sistemi di allarme si sono già accesi, non possiamo far finta di niente e dire ai passeggeri con sicurezza che c'è una turbolenza temporanea. Siamo quasi al punto in cui abbiamo un principio di incendio in cabina e non sono stati installati gli estintori per poterlo fronteggiare prima che abbia conseguenze irreparabili.
Non siamo in un simulatore, questa non è un'esercitazione.
Non ci servono per forza strumenti e soluzioni di primissima scelta che, in quanto tali, costano cari, no: adesso la questione è diventata molto più basilare, si tratta di coprire le necessità, si tratta di capire che se c'è un traguardo da raggiungere di corsa servono anche le scarpe per correre, senza affidarci a calzature adattate perchè non ci si può fermare a dirci quanto ci fanno male i piedi.

La squadra ha fatto quello che doveva, che poteva, che voleva finché c'è stato il modo per poterlo fare, ma adesso l'usura è evidente e non si può più coprire con soluzioni improvvisate.
Una proprietà può avere tanti problemi imprevisti, ma ha anche tante responsabilità acclarate ed una di queste è intervenire sulle reali necessità della squadra: non c'è negoziazione, non c'è via di mezzo, non c'è un'altra soluzione.

Questa non è un'esercitazione, Inter.
E se abbiamo una sola occasione per dirlo forte e chiaro, questo è l'unico momento sensato in cui giocarcela.
Palla a voi.

domenica 24 dicembre 2017

Santa provvidenza



Caro Santa,

intanto scusa se ti chiamo con il nome con cui ti conoscono nel mondo, ma questa letterina riguarda l'Internazionale e pertanto sento la necessità di eliminare i confini linguistici perché questo affare è importante per tutti gli appassionati del pianeta.

Forse non siamo stati buoni quest'anno: abbiamo trattato in maniera troppo drastica e scettica la stagione che stava nascendo, anche se molti di noi lo hanno fatto certamente sulla base di qualcosa.
Alcuni di noi hanno gufato la squadra quando vinceva, solo per potersi guadagnare i 5 minuti di celebrità nei panni dei Grilli Parlanti che a un certo punto dell'anno sfruttano la giornata storta per dire "Io ve l'ho sempre detto, sono quello che ne capisce di più e voi stronzi siete i gonzi che andavano dietro alle chimere".
Altri hanno reso l'ultima estate un inferno tra pesantezza, isterìa, difficoltà cognitive, incapacità di separare le cose negative dalle cose positive.
Dall'altra parte però abbiamo ripopolato San Siro, abbiamo applaudito la squadra anche se sconfitta, abbiamo celebrato con orgoglio il derby vinto ed i risultati positivi negli scontri diretti; ci siamo innamorati di Spalletti, ci siamo infatuati di Skriniar, ci siamo resi conto del valore di Icardi, abbiamo perfino rivalutato D'Ambrosio e Candreva.

Insomma, la nostra parte l'abbiamo comunque fatta ma ora abbiamo bisogno di una mano.
L'albero addobbato è il termometro della nostra passione: quando lo abbiamo iniziato eravamo primi in classifica grazie ad un rendimento oltre le proprie possibilità ed una buona dose di eventi esterni girati nel modo giusto.
Oggi che l'albero è qua per farlo vedere soprattutto a te, abbiamo perso per strada un paio di rami finiti negli spogliatoi di squadre di provincia e c'è chi comincia a dire che non ci meritiamo gli addobbi, che l'albero si sta seccando, che era nato morto ed è cresciuto grazie ad un miracolo irripetibile che sta svanendo il suo effetto.

C'è chi comincia a metterci le sciarpe biancazzurre perchè si è messo in testa che l'albero della Lazio è scintillante, perfetto, con una marea di regali ai suoi piedi e destinato a crescere verso l'infinito e oltre.

Abbiamo bisogno di una mano per non ritrovarci tra un paio di mesi a doverci arrendere ai disfattisti ed ai becchini dandogli la soddisfazione di pensare che il loro modo di vivere la fede calcistica sia quello giusto.

Abbiamo bisogno di soluzioni, caro Santa: abbiamo la necessità di trovare sotto l'albero un'idea o un rinforzo che ci tolga dalle secche di un attacco monocorda che ha svelato l'impossibilità di essere affidato per nove mesi alla vena o alla condizione di Candreva e Perisic. 
Abbiamo bisogno di smettere di considerare Brozovic o Joao Mario delle soluzioni, perchè le cose non stanno così: per motivi diversi, entrambi si sono guadagnati un punto di domanda sopra la testa, là dove deve esserci un punto esclamativo solido e pesante.
Abbiamo bisogno di guardare la panchina e non vedere il solco abissale di qualità che c'è rispetto a chi calpesta l'erba, né vedere i troppi posti vuoti che la caratterizzano.
Abbiamo bisogno di trovare nuove idee trascinanti per tenere a galla anche le vecchie certezze, perchè quando le cose non riescono il livello si abbassa e le cose semplici diventano complesse equazioni, il pallone da calcio diventa una palla da bowling, ogni metro percorso diventa una maratona, l'Udinese diventa il Barcellona e il Sassuolo diventa il fantasma del Natale passato.
Abbiamo bisogno di reputare anomalo che Skriniar sia il terzo cannoniere della squadra, saltando a pié pari un centrocampo che finora la porta l'ha vista da lontanissimo o l'ha incontrata per un fugace saluto senza alcuna confidenza.


Ci servono soluzioni, caro Santa: forse dall'altra parte del Naviglio ti stanno chiedendo i miracoli che non ti spettano, ma da questa sponda noi abbiamo bisogno solo di poter cambiare strada quando la carreggiata comincia a farsi tortuosa.
Che il tuo vero nome sia Jindong, Steven, Piero, Walter o Luciano fai in modo che questo Natale diventi l'occasione per convincere tutti che al futuro si può ancora guardare con la stessa fiducia.
Natale è domani, ma per noi è più importante che lo sia a maggio.

Con stima,

Fulvio Santucci


lunedì 4 dicembre 2017

Foto di gruppo



Mamma mia.
Adesso lo dico proprio con lo stupore di chi si ritrova le proprie convinzioni già abbastanza rosee addirittura soverchiate da ciò che ha visto: mamma mia.

Inter-Chievo doveva essere una partita già complicata di suo, resa ancor più ingarbugliata dalla vetta a portata di una squadra nota negli ultimi anni per riuscire a perdere tutti i treni possibili: è stato un massacro, una sorta di pandoricidio pre natalizio.
Era l'ennesimo esame, la rinnovata prova del nove dove alla fine 9 (ma forse anche di più) potevano essere i gol segnati da Icardi e compagnia, ma strada facendo è diventata soprattutto la prova dei nove: i 9 titolari su 11 che si sono abbattuti sul Chievo come Katrina su New Orleans (solo il Napoli contro il Benevento ha avuto, dati alla mano, una produzione offensiva paragonabile) e che sono tutti reduci dalla disgraziata stagione 2016/17.

Riflettiamoci un attimo: riavvolgiamo il nastro, torniamo a fine luglio e facciamo finta vi sia stato anticipato che a dicembre avremmo ospitato il Chievo schierando in difesa Santon Davide, Skriniar Milan, Ranocchia Andrea e D'Ambrosio Danilo.
Le reazioni sarebbero state nell'ordine: risate, scherno, pernacchie, incredulità, ira, depressione, nichilismo: non si può barare qua, sappiamo tutti che sarebbe andata così.

Invece il Santon visto per un'ora ieri è la cosa più simile al Santon visto contro il Man United di CR7 e Ferguson nell'ormai lontanissimo febbraio 2009; su Ranocchia dovremmo aprire un capitolo a parte, probabilmente incentrato sulla psicologia, nel vedere un calciatore praticamente carbonizzato in questa piazza giocare benissimo e dichiarare poi "mi sembrava di stare al campetto con gli amici".
Siamo all'imponderabile, vanno chiamate in causa le congiunzioni astrali come del resto per tutta la domenica nerazzurra iniziata col Milan che diventa parte della storia del Benevento prendendo gol al 95' dal portiere e finita con l'Inter che polverizza il Chievo, squadra che oggi ha 20 punti e che si salverà probabilmente tra febbraio e marzo, tirando 39(!!!) volte verso la porta di Sorrentino.


La domanda è lì a sfrigolare in attesa di trasformarsi in una risposta inattaccabile: com'è stato possibile che questa squadra sia arrivata al 3 dicembre inanellando il terzo miglior rendimento nell'intera storia della Serie A? Quanto c'entra Luciano Spalletti in questa meravigliosa follia?
Luciano da Certaldo è certamente il maggior responsabile di questa scintillante Inter autunnale, di cui probabilmente non stiamo cogliendo la grandezza perché deviati da un campionato che è interpretato ad altissimo livello anche da altre quattro squadre.
Lui ha impresso un cambio di filosofia nel gioco, lui ha coinvolto giocatori che erano a pezzi e li ha resi parte di un mosaico, lui ha ribadito gli obblighi sindacali a cui si è sottoposti indossando la maglia dell'Inter: giocare sempre per fare risultato, mai pensare che basti il compitino.

Ne fui sicuro già dopo una settimana di precampionato: l'idea di Spalletti era vincente sul lungo termine, nonostante la qualità della rosa non fosse la migliore del campionato. 
Non avrei però mai potuto credere a questo rendimento, contornato da partite giocate in maniera assurdamente superba come la prima ora di Inter-Sampdoria e come l'ultimo Inter-Chievo in alternanza con partite giocate in maniera tremendamente cazzuta come Napoli-Inter.
Già era promettente una squadra in cui tutti sapevano cosa fare, vera svolta stagionale, ma ora abbiamo avuto la prova che tutti possono anche sapere come fare le cose nel miglior modo possibile: l'azione del 4-0 di Skriniar, ad esempio, contiene almeno 5 cose fatte in modo perfetto da 4 diversi giocatori.
E anche se il Chievo non ha pescato certamente la sua giornata migliore, i meriti di questa squadra che di casuale non ha più nulla rimangono saldi.

Quindi, cosa possiamo mettere sulla bilancia per riequilibrare tutta questa positività? Per molti c'è una frustrazione, lecita, che deriva dall'aver fatto 39 punti su 45 ed avere ancora un margine troppo risicato sulla quinta forza del campionato.
Abbiamo scelto forse l'anno peggiore per decidere di diventare una squadra che vince, è pacifico, ma dall'altra parte io non sono convinto al 100% che un vantaggio di 10-12 punti sulla zona Champions sarebbe un sinonimo di tranquillità.
Conosco l'Inter e conosco purtroppo come le mie tasche i suoi cali di tensione: voi stessi, sono sicuro, pensate alla stagione in modo guardingo e attento aspettandovi dietro l'angolo l'episodio che la svolta in negativo. Il motivo è lo stesso, avete timore dell'Inter che si rilassa e perde la trebisonda.
Ecco perché un campionato senza tregua, senza il minimo margine di errore, senza la possibilità di poter concepire un passo falso inaspettato può diventare combustibile per un gruppo che ha dimostrato per 15 volte la sua repulsione verso la sconfitta.

Nessuna Inter vincente ha mai potuto abbassare la guardia, anche quella più vincente di tutte avrebbe potuto perdere tutto a maggio, invece non è andata così.

Proprio quell'Inter è stata l'ultima a mettere piede a Torino, sponda Juventus, da prima in classifica: la storia si ripeterà sabato, per la prima volta allo Juventus Stadium.
Nelle mie convinzioni il piano partita di Spalletti non sarà affatto quello di Napoli, credo invece convincerà i suoi ragazzi che fare bottino pieno anche contro di loro che di big match in Serie A ne sbagliano pochi è possibile se ci si crede.
Può evidentemente andare male perché stiamo parlando di una squadra con risorse superiori ed un vissuto da dominatrice: noi possiamo essere loro nel 2011-12, ma loro sono cambiati in meglio senza aver mai tolto le mani dal tricolore.
Però può anche andare bene, perchè se c'è un anno in cui la Juventus non sembra di anni luce avanti a tutte le altre è proprio questo.

Stiamo leggeri, con la libertà di sognare e la consapevolezza che non stiamo ancora giocando per il bersaglio grosso.
Intanto però, scattiamoci una foto per autocelebrare una ritrovata voglia di Inter da parte nostra e da parte di chi va in campo.
Una foto di gruppo, per non dimenticarci mai che le cose migliori accadono quando tutti remano dalla stessa parte.




lunedì 27 novembre 2017

La forza dell'abitudine


Non ne potevo veramente più della retorica della Pazza Inter.
Come disse un giorno il bravo Giorgio Crico, la Pazza Inter è (o spero sia stata) un chiaro espediente narrativo per giustificare una marea di vittorie arrivate senza logica, a schemi saltati e dopo una partita il più delle volte compromessa da errori marchiani e scarsa attenzione: niente di più vero.
Non ne potevo più soprattutto perché una squadra pazza è una squadra inaffidabile e nel contesto di un campionato che ha degli obiettivi, questo è un problema che è stato troppe volte sdoganato da caratteristica nativa dell'Inter ed in accezione erroneamente positiva.

Bene: la Pazza Inter, se qualche entità divina vuole, ce la siamo levata dalle scatole. O almeno messa in naftalina per un terzo di questa stagione, che è già qualcosa.
L'Inter è cambiata, è diventata abitudinaria: nel male lo è stata spesso in questi ultimi anni, nel bene praticamente mai (no, gli 1-0 di Mancini versione 15/16 non erano la buona abitudine che pensavamo allora). Lo scrissi settimana scorsa, l'Inter 2017/18 con una media di due punti e mezzo a partita non è un caso: è il prodotto della sua nuova identità, fatta di pregi e di difetti che ai miei occhi iniziano ad essere qualcosa di seriale, qualcosa che gira intorno agli stessi fondamenti.
"Per la ripresa serve stabilità" è una delle massime che maggiormente ho letto quando si è parlato di come l'Italia dovrebbe uscire dall'interminabile crisi economica: ecco, credo che per l'Inter valga, o sia valsa, la stessa identica cosa.

La stabilità che parte dalla visione che i tifosi avevano alla vigilia di Cagliari-Inter: in un sondaggio che ho lanciato su Twitter, le centinaia di votanti hanno scelto l'opzione "Vittoria lacrime e sangue" anziché temere il crollo piuttosto che la trappola, senza peraltro credere alla vittoria facile.
Per me è stato un segno tangibile di come questa Inter stia iniziando ad essere inquadrata e contornata precisamente dal suo popolo: una squadra che non si può prevedere dominante in lungo e in largo, del resto non sembra affatto attrezzata per farlo, ma una squadra di cui ci si fida quando c'è da portare a casa il risultato.
Primo elemento ripetitivo, di cui credo faremmo volentieri a meno: le partenze contratte in casa delle squadre che giocano per la salvezza. E' accaduto a Crotone, a Verona, in parte a Benevento, soprattutto a Bologna.
Sarà il rossoblu della maglia, ma la prima mezz'ora dell'Inter alla Sardegna Arena mi è sembrato quasi un copia/incolla della prima frazione di gioco al Dall'Ara di due mesi fa: transizione horror, fasce vulnerabili, squadra schiacciata, centrocampo fagocitato dal corrispondente reparto avversario e la concessione all'avversario delle sue armi migliori (nel caso del Cagliari la profondità ed il lancio lungo a premiarla).
Oltre ad una super parata di Handanovic che ha riaperto per qualche minuto il fronte dell' "Inter salvata da Handanovic".

Pensate che follia: un portiere che para. 
Come se il vostro forno, sorpresa delle sorprese, cuocesse i cibi per la cena e voi, in un momento di chiaro blackout cognitivo, pensiate che il forno vi ha salvato la cena invece di avervela creata.
Questo del farci sorprendere dalle piccole nel loro campo è comunque un pessimo vizio che facciamo fatica ad abbandonare: è confortante il fatto che Spalletti sia sempre particolarmente reattivo nel capire ed agire, questa volta addirittura schierandosi a specchio con il Cagliari per contenere i sardi nel momento di massimo sforzo.

Poi ecco il secondo elemento di stabilità: l'Inter che va in vantaggio. 

Se una parte di voi si sentiva nelle viscere che il primo gol lo avrebbero siglato i nerazzurri, non c'è nulla di casuale: è successo sabato per la decima volta, solo tre invece le situazioni in cui è accaduto il contrario. 
E poco importa se il Cagliari avrebbe forse meritato maggiormente la prima marcatura, perché uno dei vantaggi dell'avere Mauro Icardi è il fatto che c'è sempre un'ottima possibilità che converta in gol la prima palla che gli capita tra i piedi.
Pensare che c'è chi si è fatto un nome ed un pubblico attraverso le invettive contro un giocatore che è già nella storia dell'Inter e della Serie A prima di aver compiuto 25 anni, la dice lunga sulla vergognosa epoca in cui siamo comunicativamente inseriti.

Ma tant'è, Icardi è un meraviglioso sovversivo. 
Gli si contesta di segnare solo con le piccole? Tripletta nel derby. 
Gli si contesta di non aiutare la squadra? Lui se la mette sulle spalle, la striglia dopo la più bella ora di calcio mai giocata negli ultimi 5 anni (Inter-Sampdoria), proprio sabato fa autocritica sulla prima mezz'ora dopo che la squadra ha conseguito il miglior rendimento parziale della storia nerazzurra.
Gli si contesta di non distribuire abbastanza i gol? Lui segna a tutte le squadre di A, eccezion fatta per il Benevento.
Gli si contesta di non segnare in trasferta su azione? Lui piazza la doppietta a Cagliari senza calci piazzati.
Spero che presto gli si contesti il fatto di non portare l'Inter in Champions, hai visto mai che diventi benaugurante.

Dal gol in poi, l'Inter di Cagliari ha sostanzialmente gestito la partita secondo il proprio ritmo e la propria volontà: nulla di sorprendente, visto che l'Inter è la sola squadra in Serie A assieme al Napoli che non ha mai perso un solo punto quando si è trovata in situazione di vantaggio.

Un'altra abitudine molto gradita: gestisce magari senza strafare, ma non si disunisce mai e mai stacca la spina troppo in anticipo a meno che le gambe non girino proprio più.
In base a quanto sopra, faccio molta fatica a star dietro a chi farnetica di fragilità psicologica alla luce di una squadra che non perde mai un punto quando conduce e ne recupera sempre almeno uno nelle poche volte che va sotto, oltre a constatare che sono già 14 le squadre del suo campionato rimbalzate all'ingresso quando hanno provato a fare bottino pieno sulla sua pelle.


Ogni tanto questa noiosa ripetitività di tendenze viene rotta da qualche inatteso coup de théâtre: ad esempio Brozovic, che normalmente ci mette un paio di mesi per entrare in partita, stavolta ci mette due minuti segnando un gol pure pregevolissimo.
Potenzialità da miglior giocatore del reparto e una discontinuità che oggi è delizia e domani e dopodomani è croce: questo sì, è un bel punto di congiunzione con la nostra storia che sembra debba necessariamente annoverare in ogni suo ciclo un giocatore di questo genere per darsi un senso.
Un altro colpo di scena, decisamente meno esaltante, è Skriniar che non fa miracoli tipo trasformare la banda di svagati lanzichenecchi versione 2016/17 in una difesa con i controfiocchi. Anzi, stavolta decide di farci vedere che ha una sua umanità quando Pavoletti (con un gran movimento, in verità) gli sfila alle spalle per movimentare un po' il finale.
Finale che ad ogni modo non sembra affatto destinare il canovaccio già scritto ad un destino diverso: i peggio cantastorie del pensiero italico romanzeranno il giorno dopo di VAR ad orologeria e di Cagliari castrato ingiustamente per levargli il vento del pareggio in poppa, ma la verità è che oltre ad essere il terzo gol di Icardi consentito da qualunque regolamento in auge (il perché può dettagliarvelo Il Malpensante.com) arriva in un momento in cui i sardi non stavano più facendo niente di niente e l'Inter stava gestendo esattamente come fatto nel doppio vantaggio. 

Il lampo di Pavoletti resta lampo che non scatena temporali e l'Inter, pensate un po', incassa il jackpot anche a Cagliari specchiandosi nelle sue piacevoli conferme di fine partita (Candreva indispensabile, Borja Valero centrale, Miranda sulla via del ritrovamento, Perisic incisivo ed Icardi diamante sempre più lucido) e nei suoi ripetitivi difetti dell'inizio (transizione inguardabile, distanze approssimative, centrocampo mai su di tono prima di una certa fase di partita).

Paradossalmente quella di domenica contro il Chievo diventa la sfida più difficile tra le ultime affrontate, non foss'altro perché manca l'elemento abitudinario più importante: la formazione, che per la prima volta in quasi due mesi non può essere confermata per almeno 10/11.
Toccherà sicuramente a Ranocchia, l'unico che ancora non ha avuto l'occasione di dare segnali di ripresa tra coloro che erano definiti, a ragion veduta, impresentabili in estate (parlo ovviamente di Nagatomo e Santon) e che invece hanno dato finora un contributo sicuramente sufficiente per prendere parte alla causa.
Toccherà molto probabilmente a Brozovic che definirei come avevo definito Stephane Dalmat tempo fa: un lancio di moneta incarnatosi in un calciatore. Può essere sole di luglio o eclissi lunare senza soluzione di continuità, se qualcuno sa prevederlo mi spieghi come fa.

Quella che spero di poter commentare lunedì prossimo potrebbe diventare la vittoria di Spalletti contro i demoni di una rosa cortissima e l'inaffidabilità di un parco riserve che fino ad oggi ha destato più di un dubbio sul proprio valore.
Ma anche loro, le riserve, con tutti i loro difetti sono parte di questa Inter.

Questa Inter, che vince con la forza dell'abitudine.
Questa Inter, che adesso forse non è più pazza ma sicuramente fa impazzire: di gioia chi la ama, di rabbia chi la odia.


lunedì 20 novembre 2017

Non è più un caso



Oggi vi stupirò con un gioco di prestigio: leggerò il vostro pensiero, non quello attuale ma quello retrodatato.
Entrerò nella vostra mente per come è stata in due momenti ben precisi: l'immediato pre Inter-Atalanta e l'intervallo della partita.
Verso le 19.30 di domenica sera, stavate pensando pressappoco questo: la Lazio ha perso, la Juventus ha perso, il Milan ha perso e noi dobbiamo ancora giocare. Siamo reduci da un pareggio in cui abbiamo ripreso la partita per il ciuffo, c'è stata una sosta mai troppo benevola con noi in mezzo, abbiamo l'occasione di approfittare dei passi falsi delle altre.
La vostra impeccabile analisi devia sulla conclusione tipica dell'interista davanti a questo genere di coincidenze astrali: è il momento dello sveglione, quello che ci riporterà a terra, che mostrerà agli inguaribili ottimisti la fragilità mentale insita nel DNA di questa squadra. Spiace dirlo ma noi siamo così, ci siamo trascinati per inerzia e adesso il credito è esaurito.
Ci ho preso? Allora vado ancora più in là e decodifico il vostro pensiero nell'intervallo di Inter-Atalanta: lo sapevo, è la solita partita del cazzo(testuale) in cui ci accartocciamo alla distanza, ci incaponiamo, ci deprimiamo, ci disuniamo e alla fine vedrai che prenderemo anche il gol della domenica da un Gomez o da un Ilicic e sarà tutta una curva discendente fino al crollo completo.
Giusto? Diciamo che sono abbastanza convinto che 8 interisti su 10 l'hanno pensata così.


Invece ad accartocciarsi è stata l'Atalanta, perchè banalmente in questo pensiero condizionato emotivamente dagli eventi passati, ci siamo dimenticati una cosa fondamentale: l'Inter non perde da 13 partite, che diventano 19 se consideriamo un precampionato che aveva già fatto vedere tutte le idee di una squadra che stava iniziando ad essere una squadra. Ammesso che lo sia mai stato, non è più un un caso.
Che l'Inter abbia svoltato dal punto di vista della mentalità lo abbiamo capito in molti, chi prima e chi poi: siamo adesso noi ad essere quelli oggettivi,razionali e con in tasca il conforto dei fatti.
Se ne stanno accorgendo anche gli avversari, anche l'Atalanta che è una delle squadre più collaudate del campionato si è presentata qua senza una prima punta di ruolo e con un centrocampo piuttosto corazzato: meno propositiva del solito, a lasciar intendere che sono finiti i tempi in cui una buona organizzazione di gioco unita ad un paio di elementi di buona qualità bastavano per pensare di banchettare a San Siro.
Quello che avete pensato all'intervallo, secondo il mio pronostico, vi ha dato la convinzione che l'Inter stesse giocando male e questo a tratti è vero, ma non spiega tutto: perché, come avevo già scritto due settimane fa, in questo avvio di campionato da cifre record ci siamo dimenticati che gli avversari non sono scomparsi e l'Atalanta del primo tempo di San Siro ne è la prova. 

Ci hanno incartato con la densità, gli uno contro uno, il ritmo molto alto. Questo è un altro elemento di rottura col passato: l'Atalanta ha corso tanto, tantissimo e per tenere il risultato al giro di boa della partita ha dovuto spingere a tavoletta il pedale dello sforzo collettivo ben oltre il livello medio con cui molte contendenti hanno fatto bottino pieno a San Siro in altri tempi.
Poteva perfino non bastare, perchè l'Inter era arrivata in porta con tre passaggi anche nel primo tempo, ma Icardi è stato benevolo con la Dea nel duello a tu per tu con Berisha.


Data la situazione all'intervallo, nel secondo tempo servivano due elementi all'Inter: la crescita dell'impianto di gioco soprattutto a centrocampo ed il calo fisiologico dell'Atalanta.
Ma all'ingresso del secondo tempo succede una cosa che è il Turning Point, il punto di svolta dell'Inter 17-18: i giocatori iniziano a rifiutare lo stallo della partita ed iniziano a prendere di petto la situazione mettendo in campo lo sforzo supplementare per portarsi a casa la partita facendo valere la maggiore qualità. A questo si uniscono anche degli aggiustamenti tattici riusciti, come l'arretramento di Borja Valero e l'intensità nell'andare a fermare sul nascere ogni transizione della squadra di Gasperini. Considerando che l'azione orobica parte sempre dalla fascia è così che D'Ambrosio si apparecchia un secondo tempo magistrale, è da qui che l'Inter fulmina l'Atalanta in dieci minuti.
A questo punto potremmo stare qua a dirci che, stringi stringi, la differenza la fa Icardi da solo, il che potrebbe risultare vero sulla superficie ma non in senso assoluto.
Riguardando meglio il primo gol, realizziamo che se Icardi può andare a colpire sostanzialmente indisturbato è soprattutto perché Skriniar (sì, sa fare anche questo) riesce a fare un doppio blocco: sul suo marcatore prima ma anche e soprattutto su Cristante che, accortosi saggiamente che Toloi avrebbe potuto mancare l'intervento, stava per tentare la chiusura in extremis prima di schiantarsi su un Tir con la targa slovacca.
Riguardando meglio il secondo gol, prendendo atto di un movimento stratosferico del Capitano goleador che nemmeno stupisce coloro che gli stanno riconoscendo la miglior stagione della carriera, realizziamo che l'azione la guadagna D'Ambrosio con un anticipo secco e potente, la sviluppa anche Candreva che porta via il raddoppio al compagno lasciandolo libero di andare al cross prendendo la mira per la finalizzazione magistrale di Icardi.
Questo è il turning point dell'Inter: gli eventi non si subiscono, gli eventi si dominano. Il mantra usato come un coltellino svizzero da Spalletti fin dal primo giorno all'Inter ed ora anche visibile nelle dinamiche di campo. 

L'Inter che non perde non è più un caso: se l'Inter non perde è soprattutto perché gli eventi li ha sempre dominati salvo un paio di casi in cui effettivamente la fortuna ha sorriso ed aiutato a trovare la strada giusta, tanto quanto ha tolto la possibilità di tagliare il traguardo in altre occasioni.
E pazienza se la proposta di gioco non è ancora perfettamente riconoscibile: tocca nuovamente ricordare che l'Inter è una squadra nuova, cosa che ci diciamo tutti gli anni, ma che risulta sempre vera. Tocca ricordare che è l'unica squadra nella Top 5 ad aver ricostruito la propria spina dorsale e non è una cosa da poco: l'unica altra big ad averlo fatto naviga ad un punteggio più vicino alla retrocessione che alla Champions League.
Per stare all'Inter ora serve uno standard molto alto: emblematico è in questo caso Dalbert, che ha visto passargli davanti i rivitalizzati Nagatomo e Santon, non perchè sia per forza stato bocciato ma semplicemente perchè così non basta. Non quest'anno, non per Spalletti.

Qua gli esami non finiscono mai ed è pacifico: fino a quando non ci sarà una posizione consolidata in primavera ogni settimana sarà la prova di maturità, la conferma da trovare, il tabù da sfatare, il passato da cancellare.

Però non è più la squadra che si adegua agli altri, non è più la squadra che annaspa in mezzo ad equivoci tattici, non è più la squadra che perde la trebisonda al primo ostacolo che trova, non è più la squadra che cavalca gli eventi facendosi poi puntualmente disarcionare.
No, signori: questa Inter non è più un caso.

lunedì 13 novembre 2017

Siamo questi



24 giugno 2010.
24 giugno 2014.
13 novembre 2017.
Tre date che si stagliano nell'arco di sette lunghi anni, tre date che apparentemente non hanno nulla in comune ma a ben vedere posseggono un enorme comune denominatore: sono le tre date in cui la nazionale italiana di calcio si è trovata sull'orlo del precipizio e si è improvvisamente ricordata di tutto ciò che non funziona.

L'Italia delle quattro stelle sul petto che non è più in grado di trovare il suo posto sulla mappa planetaria, l'Italia calcistica che ha scoperto di potersi deteriorare e di non avere alcun diritto divino da esercitare, l'Italia con addosso gli occhi del mondo che si interroga su cosa continui ad andare storto nel rapporto con la massima competizione globale dopo la gloria del 9 luglio 2006.
Quelle che seguono sono riflessioni di un osservatore che non ha alcuna velleità né pretesa, ma che si interroga su quella sensazione di loop che ha addosso da quasi un decennio e che anche ingenuamente si stupisce su come la ripetitività di certe situazioni pare faccia cadere dalle nuvole un'ingente quantità di persone che vivono, o dovrebbero vivere di pallone ogni giorno.

MEZZE FIGURE E FIGURACCE
Per rendere efficace qualunque analisi vogliamo fare, dobbiamo necessariamente partire dall'ultimo fotogramma: lo stato confusionale in cui versa Giampiero Ventura e il modo in cui è diventato il bersaglio mobile di un'intera nazione in poche settimane.
Non sono stati in pochi ad alludere o a dire apertamente che la priorità della nazionale è cambiare il Commissario Tecnico anche in caso di qualificazione al mondiale acciuffata: qui si apre un vaso di Pandora delle dimensioni del Colosseo, perché dobbiamo riflettere in primis sul motivo per il quale Ventura sia stato scelto, visto che all'epoca lo avevano capito in pochi e oggi ancora meno persone lo comprendono, forti del senno di poi.
Quando l'attuale CT ha preso in mano la nazionale si era ventilata l'ipotesi che la strada verso il mondiale fosse stata spianata dall'eredità che aveva lasciato Conte, ma la maggior parte si era accorta benissimo che era lo stesso Conte il vero valore aggiunto. La scelta di Ventura non era sembrata quindi molto diversa da quella di Prandelli, che per quanto sia riuscito in un grande exploit nel 2012, ha evidenziato nel 2014 la stessa confusione che c'è in Ventura oggi, con formazioni sbagliate e l'impressione di essere stato delegittimato dal gruppo e di poter finire in preda dell'opinione pubblica.

Prandelli e Ventura rappresentano le mezze figure che nell'occasione forse unica della vita fanno quello che possono fare senza alzare troppo la voce.
Tutt'altra musica rispetto a Conte che già nella prima conferenza da CT aveva iniziato ad evidenziare l'esigenza impellente di riforme strutturali nel movimento calcistico nazionale per poi andarsene in polemica due anni dopo dicendo con amarezza che su certe cose aveva fatto la guerra da solo.
La questione sembra piuttosto semplice e logica: se in panchina ci si mette un tecnico vincente è necessario creargli una struttura vincente altrimenti suddetto allenatore alza i tacchi e toglie il disturbo.
La scelta di allenatori che sembrano inadeguati per il ruolo fin dall'inizio potrebbe allora celare la precisa volontà da parte della Federazione di inserire mezze figure che non hanno il carisma ed il background professionale per imporre determinate migliorie che nessuno vuole davvero effettuare e che saranno ben contenti di lavorare con il discreto materiale che si ritroveranno; allo stesso tempo possono diventare facili capri espiatori su cui deviare l'ovvio e grave problema strutturale che esiste in tutti i livelli del nostro calcio.
Con la sola controindicazione che in una nazionale come quella italiana le mezze figure portano quasi sempre alle figuracce ed alla ripetitività dei dibattiti che poi restano sempre estemporanei e fini a loro stessi.

GERONTOCRAZIA

La precedente riflessione potrebbe essere collegata ad un altro punto da evidenziare: l'Italia è una nazionale gerontocratica, senza girarci troppo attorno.
Analizzando l'11 sceso in campo a Solna venerdì sera ci accorgiamo che 6/11 erano in campo nell'esordio del disastroso mondiale 2014, 4/11 furono titolari nell'esordio di Euro2012, 3/11 furono scelti da Lippi per la prima partita del fallimentare mondiale sudafricano ed addirittura 2/11 partirono dall'inizio ad Hannover nella prima partita del trionfale mondiale 2006 (con il terzo, Barzagli, che faceva parte della spedizione).
Non si tratta solo di mancanza conclamata di ricambi, ma anche di aver eletto dei senatori a vita: una scelta che non permette di responsabilizzare giocatori al di fuori di questa cerchia, che vengono trattati come stagisti nel momento in cui sono in piena maturità calcistica.
Emblematico l'esempio di Verratti: ancora a fine 2015 ci si chiedeva se era il caso di responsabilizzare un giocatore di 23 anni, che era titolare in una delle squadre più attrezzate d'Europa da quasi un biennio.
L'Italia che ha giocato in Svezia con 6 giocatori nati negli anni '80 è la radice del problema: oltre alla freschezza atletica che inevitabilmente viene a mancare, resta l'impressione di un gruppo in apparente autogestione che non ha più la fame e le motivazioni dei propri anni migliori.
Delle due l'una: o Ventura si affida a loro per avere un paravento di esperienza in caso le cose andassero male o ha le mani legate in questo senso.
Comunque la vogliate mettere, guardiamo altrove e ci accorgiamo che le stelle già consacrate o in procinto di esserlo nelle altre nazionali creano un solco di età che inizia ad essere imbarazzante: Gabriel Jesus (Brasile 1997), Asensio (Spagna 1996), Alli (Inghilterra 1996), Mbappe (Francia 1998), Werner (Germania 1996) sono già annoverati tra i migliori giocatori del mondo e con un'età media di 20,4 anni oggi si potrebbero teoricamente trovare ad affrontare una difesa azzurra la cui media anni è di 34,5.
Non credo si possa provocare più alcuno scandalo se si afferma con convinzione che tale situazione non è più accettabile.


BAN DEGLI STRANIERI: LA TOPPA PEGGIO DEL BUCO
In mezzo alle voci di protesta urbi et orbi, torna sempre il solito refrain dei troppi stranieri e dello stop che andrebbe imposto immediatamente sulla scia di quanto fatto nel 1966.
Senza dover stare a dire perchè il calcio del 2017 non ha nulla a che fare con quello del 1966, nel dare il proprio beneplacito a tale provvedimento non si fa altro che strizzare l'occhio ad una federazione che da anni naviga consapevolmente sulla superficie dei problemi senza mai azzardarsi nemmeno a quantificare tutta la spazzatura che ne popola il fondale.
Porre il divieto agli stranieri oggi sarebbe il colpo di grazia inferto ad una Serie A già agonizzante, che dovrebbe diventare autarchica proprio nel momento in cui si è trovata costretta ad attirare visibilità e capitali stranieri per tentare di non finire in coma vegetativo irreversibile causato dall'incapacità di tenere il passo con i tempi da parte della classe dirigente che del calcio italiano muove i fili.
Eppure questa litanìa che continua a ripetersi ogni qualvolta la Nazionale compie un lungo passo nel vuoto non trova un coerente riscontro nel momento in cui il maggior interesse nazionalpopolare è il campionato: dovremmo tutti ricordarci come fino a due-tre anni fa uno dei problemi sollevati fosse lo scarso appeal che non attirava i campioni dall'estero.
Perché banalmente la verità è questa: i giocatori forti in questo momento albergano oltre confine e lo hanno ben capito le prime cinque del nostro campionato che settimanalmente mandano in campo un 11 che non va mai sotto il 70% di giocatori stranieri, senza che nessuno si affanni a dire che in ottica Nazionale la situazione risulti inquietante tanto quanto lo risulti quando la Nazionale si sta per inabissare.
Dobbiamo metterci d'accordo: o celebriamo come orgoglio nazionale la formazione tipo della Juventus pre-Cardiff (4 italiani di cui 3 over 30) e in tempi più recenti del Napoli di Sarri (2 italiani di cui un oriundo) o puntiamo poi il dito contro le realtà troppo esterofile e nemiche della crescita del movimento nazionale: ambo le cose, come evidente, non si possono fare.
Anche a livello giovanile, la situazione è catastrofica praticamente da tutti i punti di vista: il fatto che i campionati Primavera, ma anche le categorie inferiori, siano invase da giocatori stranieri è visibilmente legata al fatto che gli stranieri costano molto meno e permettono di mettere a segno plusvalenze di gran lunga superiori che nella maggior parte dei casi fanno la differenza sulla boccheggiante situazione economica di moltissimi club italiani.
Inutile parlare di esterofilìa e fascino dell'esotico, questa non è una libera scelta: sarebbe come vietare alle imprese italiane di portare all'estero interi reparti o direttamente la sede amministrativa per favorire il made in Italy a scapito del loro guadagno. La tendenza è radicata, nelle imprese come nel calcio, semplicemente perché non esiste una struttura sostenibile alla base e la sopravvivenza passa anche da questo tipo di decisioni.
Sempre parlando di Campionati Primavera, evidenziamo una volta di più che tra il livello giovanile e il livello professionistico c'è di mezzo un mare profondo quanto l'Oceano Indiano: il salto nella maggior parte dei casi fallisce perché chi esce dal settore giovanile non è assolutamente pronto per uno sport completamente diverso come il calcio professionistico.
Non è più un mistero il ritardo che l'Italia ha accumulato nel settore giovanile rispetto ad altri paesi: si può anche qua superficialmente dire che è una generazione sfortunata, che i Maldini, i Totti, i Nesta non nascono più ma la verità è che non crescono come se fossero in altri paesi: spesso viene citato l'esempio della Germania, che nel 2000 decide di fare tabula rasa (peraltro avevano vinto l'Europeo solo 4 anni prima) ed istituire una rete di centri federali che viaggiano sulla stessa lunghezza d'onda, con gli stessi standard qualitativi e con gli stessi fondamenti pena pesanti sanzioni ai club che non si adeguano,  ma anche la Francia ha un programma federale molto simile per struttura e qualità che permette poi di disporre di almeno una quarantina di giocatori sotto i 25 anni che si possono esprimere ad alto livello.

Senza avventurarci nell'inferno delle categorie inferiori alla Serie A, dove tra le altre cose spicca la realtà in cui ci sono giocatori che pagano di tasca propria per poter giocare, se consideriamo solo il fatto che dopo il pesante fallimento mondiale del 2014 abbiamo preferito le multiproprietà (che si possono permettere forse in due o in tre) rispetto all'istituzione delle seconde squadre, la conclusione che ne traggo è banale quanto trita: l'Italia non mostra alcun interesse a crescere collettivamente, ma è sempre rivolta al guadagno individuale.

Queste riflessioni possono essere condivisibili o no, ma non è questo il punto che voglio far emergere: il punto è che avrei potuto giungere ad identiche conclusioni quasi dieci anni fa.
Perché comunque la vogliate girare, comunque vada Italia-Svezia di questa sera, comunque vada poi a finire l'eventuale avventura mondiale, non ci diciamo e non ci diremo nulla di nuovo: noi eravamo, siamo e rimaniamo questi.
Avvitati su vizi di cui tutti sono consapevoli ma che nessuno è disposto a perdere, cristallizzati su disastri strutturali di cui amiamo dimenticarci preferendo vivere alla giornata quando la Nazionale non è in auge, basati su un sistema insostenibile che ripete gli stessi errori per poter pagare gli stessi dividendi agli stessi soggetti.
Siamo questi e questi rimaniamo.






lunedì 6 novembre 2017

La classifica non è un'opinione



30 punti su 36.
12 turni di imbattibilità.
11 punti su 15 conseguiti contro le prime otto in classifica.
2 punti di distacco dalla vetta.
11 punti di distacco dati ai rivali cittadini.
Oggi mi è stato detto che negli ultimi anni siamo diventati commercialisti, che i numeri ci stanno influenzando troppo; io dico invece che abbiamo perso di vista l'inoppugnabile, cioè la matematica, a favore dell'inconsistenza insita nella post-verità. E in questo caso la sola verità che conta, cioè il numero di punti in classifica, passa in secondo piano a favore di opinioni, proiezioni, picchi emotivi, ansia da prestazione, ansia da pressione, paranoia, traumi del passato e terrore del futuro.
Scendiamo un attimo dalla giostra e organizziamo un'analisi razionale: ne ho bisogno io e forse ne avete bisogno anche voi.

IL PASSO CHAMPIONS NON È IL PASSO SCUDETTO
C'è un grande equivoco in questa Serie A: proiettare la classifica finale secondo le medie attuali. Oltre ad essere un equivoco è un grave errore, come proiettare l'ordine di arrivo e relativi tempi dei 10mila metri piani quando la distanza coperta non è neanche a due chilometri. Credere che tutto proceda secondo un trend prestabilito senza alcuna variabile o variazione.
Un errore che in ambito comportamentale è conosciuto come "fallacia della mano calda" e che è uno dei tranelli cognitivi più comuni, soprattutto dove l'ambito è la competizione.
Non è ragionevole credere che quattro squadre vinceranno sempre, in primis perché i campionati vivono di fasi nelle quali nessuna squadra è mai stata continua dall'inizio alla fine: nemmeno l'Inter dei 97 punti 2006/07, che a questo punto del campionato aveva lo stesso punteggio dell'Inter attuale. Nemmeno la Juventus dei 102 punti, che a questo punto del campionato aveva già perso una volta.
Ragionevole è dire che ogni stagione è a sè e può spostare nuove frontiere o abbattere limiti pre-esistenti, però deve valere per tutti: anche per l'Inter che quindi non ha la certezza di fallire l'obiettivo, come qualcuno sta insinuando, solo perchè esiste un precedente del 2015-16 in cui all'ottimo avvio (risultante comunque in tre punti meno dell'attuale) è seguito un crollo primaverile.
Non lotterà per lo Scudetto l'Inter, non lotterà per lo Scudetto la Lazio e molto probabilmente nemmeno la Roma: proprio perchè le soglie di punteggio sono le più alte di sempre, alla lunga saluteranno la compagnia le squadre più attrezzate per il bersaglio grosso e nel contempo abbastanza navigate da poter sublimare la loro crescita. Tra queste, io ne riconosco sempre e solo due con le altre a galleggiare su un livello di poco più basso.


ESISTONO ANCHE GLI AVVERSARI
Un altro grosso equivoco nel giudizio di questo campionato è credere che ogni partita sotto la quinta in classifica sia da considerare alla stregua di un allenamento: i due punti persi con il Torino sembrano oggi una fatalità irrimediabile e non si capisce perchè i due punti persi dalla Lazio con la Spal siano da ascrivere agli innocui incidenti di percorso delle prime giornate, come se la classifica della Serie A non le annoverasse.
Fa parte della post verità dire, dopo il pareggio con il Torino, che Roma e Lazio hanno un passo diverso e superiore: dire che certe partite loro non le sbagliano, con certe squadre loro passeggiano.
La Lazio ad esempio ha portato a casa il risultato di misura e negli ultimi minuti sui campi del Chievo e del Genoa, si è fermata come detto contro la Spal e ha rischiato di farsi riprendere a Bologna; la Roma è andata certamente meglio, ma non ha dominato in lungo e in largo contro Crotone e Bologna, oltre ad aver già inanellato due sconfitte nei cosiddetti scontri diretti.
C'è inoltre una differenza da rimarcare sul calendario ancora incompleto, allorché la Lazio ha sfidato in 8 occasioni su 11 squadre che navigano attualmente tra l'11° e il 20° posto a differenza dell'Inter che ha avuto tale privilegio due volte in meno fin qua.
Va chiarito, non è una discriminante vincere soffrendo: è semplicemente uno degli step fondamentali di un campionato nonché uno degli indicatori più consistenti di una squadra presente e determinata anche quando la superiorità sulla carta sembra più assottigliata in campo. Proprio questo è l'elemento che dovrebbe far dire ai tifosi dell'Inter che la loro squadra c'è.
Un discorso che vale anche per Napoli (due vittorie in rimonta con Genoa e Sassuolo) e Juventus (in rimonta con Genoa e Benevento).
Gli avversari esistono per tutte ed in particolare il Torino visto a San Siro ha portato via un punto più per meriti suoi che per demeriti nerazzurri: è evidente che la squadra superiore che è l'Inter abbia primeggiato nel computo delle occasioni avute, ma va considerato che la maggior parte di esse siano arrivate negli ultimi dieci minuti, in cui il Toro ha deciso che l'1-1 poteva andare bene ed ha arretrato il proprio baricentro di una ventina di metri per la prima volta in tutta la partita.
La squadra di Mihajlovic è stata ampiamente all'altezza dell'impegno e ha accarezzato anche l'idea di fare il colpo grosso dopo essersi trovata in vantaggio: non sarà l'unica volta che accadrà in questo campionato, nè all'Inter né alle sue competitors.


L'INSERIMENTO DEI NUOVI
A proposito dell'Inter, l'appetito arrivato mangiando punti e battendo record storici pur parziali ha completamente lasciato cadere nel vuoto un tema fondamentale dell'inizio di stagione: la squadra di Spalletti è quella che ha meglio saputo inserire i suoi nuovi arrivi all'interno del proprio rinnovato sistema di gioco.
Tendiamo a dimenticarlo per la buona abitudine dei tempi recenti, ma tra le prime cinque in classifica l'Inter è sicuramente la squadra più in rodaggio che c'è: nuovo allenatore e con lui nuova filosofia, con due terzi della spina dorsale composta da neo acquisti (Skriniar e Vecino) che hanno saputo giocare duro fin da subito, ma che hanno ancora consistenti margini di crescita nei loro servigi per la squadra che hanno attorno.
Guardandoci altrove, abbiamo Juventus e Napoli con progetti avviati da almeno tre anni; la Lazio aveva già trovato la sua alchimia nel girone di ritorno dello scorso anno e la sta mantenendo a seguito di qualche ritocco dovuto ad inevitabili cessioni (Biglia). 
Anche la Roma ha cambiato tecnico e variato sistema di gioco, ma ha mantenuto la stessa spina dorsale che le consegnò il secondo posto un anno fa: Fazio/Manolas, Nainggolan/Strootman e Dzeko. Il merito è quello di aver saputo ovviare alle perdite in rosa con elementi che sembrano un deciso upgrade, come Alisson e Kolarov, che si sono tuttavia inseriti in un sistema che era già funzionante senza che lo abbiano di fatto creato come successo all'Inter.


LA ROSA CORTA
La sola cosa che all'Inter dà un giustificato motivo far storcere il naso è il numero di abili ed arruolati per la stagione in corso: Spalletti ha di fatto 14 titolari e nessuna riserva, guardando il momento attuale. Non ha le armi per poter stravolgere una partita bloccata, poco contributo da giocatori ancora troppo acerbi o semplicemente poco affidabili, ha potuto trovare la quadra non toccando quasi nulla rispetto a ciò che aveva in mente durante l'estate.
Giriamo lo sguardo e vediamo che il Napoli non ha un imprinting così tanto diverso: lì i titolari sono più o meno 15, ma la grossa differenza è che se Sarri si trova in emergenza può provvedere numericamente, se capitasse in questo momento a Spalletti toccherebbe citofonare a casa Vecchi per tirar su qualche sbarbatello e poter compilare la distinta.
Questa è l'unica ombra davvero concreta su una stagione positiva e l'unico vero motivo di preoccupazione per il futuro: già solo un cartellino giallo a carico di Miranda ad oggi vorrebbe dire Ranocchia titolare e nessun cambio di ruolo dietro, con la possibilità di arruolare D'Ambrosio per tale posizione spostando però il buco dal centro alle fasce, là dove al posto del 33 nerazzurro potrebbero giocare solo Cancelo (definito non pronto), Santon (poco affidabile per evidenza) o al limite Nagatomo che a sua volta crea la contingenza nel posto che lascia (Dalbert è un altro definito acerbo).
Questo è un problema che non impatta ad oggi le competitors e che potrebbe potenzialmente tracciare un solco: tra l'Inter A e l'Inter B al momento passa almeno mezza categoria di differenza, senza considerare che l'Inter B copre forse la metà dei corrispettivi ruoli.
Un problema che attende una soluzione urgente nella prossima finestra di mercato, dove almeno un paio di innesti nei ruoli sensibili a livello numerico sono una necessità.

Ora che sono sceso dall'ottovolante mi gira meno la testa, il mio stomaco brucia meno e generalmente mi sento meglio.
Sapere che non esiste la classifica delle opinioni discordanti, la classifica del bel gioco, la classifica dei pali colpiti, la classifica dei pali degli altri, la classifica delle impressioni, la classifica delle vacuità mi rimette finalmente in contatto con la realtà.
30 punti su 36.
12 turni di imbattibilità.
11 punti su 15 conseguiti contro le prime otto in classifica.
2 punti di distacco dalla vetta.
11 punti di distacco dati ai rivali cittadini.
E una classifica che non è un'opinione.