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lunedì 16 novembre 2015

Ça va sans dire


Oggi ce l’ho avuta la tentazione.
Di tornare a parlare di calcio, di distrarre chi ha la pazienza di seguirmi da un weekend troppo impegnativo, di chiedere se contro il Frosinone sarebbe stato più decisivo Jovetic o Icardi.
Però, ci sono cerchi che vanno chiusi e a questo cerchio non sarei mai riuscito a dare una forma se avessi lasciato i pensieri anche più grandi di me in sospeso.
Questa è la croce di chi mette nella scrittura tutto quello che ha, il fatto di non riuscire mai a chiudere diversamente da carta e penna qualsiasi cosa crei un’emozione.
Così, per riuscire anche un po’ a fare pace col fiume emotivo che mi ha pervaso negli ultimi due giorni, devo svestire i panni ingessati di quando gioco a fare il giornalista e parlare a briglia sciolta in modo più intimo, più personale e più emotivo di tutta questa follia che ci restituisce un mondo inevitabilmente più pesante in ogni suo gesto.
A te, che stai leggendo queste parole, chiedo una cortesia: immagina che ne stiamo parlando davanti ad una birra in un pub. Immagina che sia un brain storming senza presunzione né assunzione di verità. Immagina di poter ricevere determinati concetti in un modo genuino e fine a se stesso. E mettili anche in discussione, se necessario; scrivendoli te li sto consegnando proprio perché tu possa restituirmeli in un contorno e in una forma nuova. Perché io e te insieme, a menti unite, si trovi una spiegazione che ci possa aiutare a capire il mondo che verrà, senza liquidare qualcosa di così disarmante dietro slogan preconfezionati e festival delle banalità.

Per raccontare questa storia parto da una domanda: come facciamo ad essere ancora a questo punto? Nella notte del silenzio, quella che ha steso lenzuoli bianchi non solo sui corpi ma anche sulle convinzioni, ho passato ore a cercare una risposta rassicurante, immaginando questa risposta come la avessi dovuta dare dare ad un bambino che, nella sua trasparenza, è curioso di capire da che parte si deve girare per trovare il suo posto nel mondo.
Mentre in molti si affrettavano a mettere paletti, erigere muri e costruire trincee, questa domanda me la sono posta ampliando il raggio sull’intera umanità perché a me è parso subito chiaro che andando al nucleo dell’accaduto quello che si trovava era un fatto umano, più che razziale.
Il Bataclan, in particolare, mi ha letteralmente pietrificato soprattutto perché il mondo dei concerti rock è stato il mio mondo principale per una intensa fase della vita e l’immedesimazione è stata istantanea.
Ecco, l'immedesimazione: è stata l'immedesimazione a farci elaborare quella psicosi che ha invaso tutte le superfici su cui si poteva scrivere qualcosa, quella voce che ti dice “potevi essere tu” o forse peggio: “poteva essere tuo figlio”. Questo ci ha smosso inermi come schegge impazzite, in un flusso talmente veloce e disordinato che chi ne ha voluto far parte ha scritto di getto cose su cui non si è preso il tempo di ragionare.
Perché io alla matrice religiosa ho trovato da subito tanti, troppi buchi: perché mai colpire Parigi, la capitale europea insieme a Londra più multirazziale ed eterogenea in fatto di religione, quando si potevano colpire gli headquarters del cristianesimo a Roma o la Polonia, avamposto de facto del cattolicesimo europeo?
E ancora: come si poteva pur in quei momenti convulsi non pensare che al Bataclan fosse rimasto steso anche qualche musulmano, dal momento che in Francia il numero di praticanti islamici (e non islamisti) supera i 5 milioni di unità?

Si sparava ancora a Parigi mentre in Italia si cominciavano ad emettere le sentenze per direttissima: ho cercato di traslare tutto quanto sul piano reale e non ci è voluto molto per annusare che i morti di Parigi, ormai, erano finiti sullo sfondo di un catino di individualità in cui il grido era “si salvi chi può” senza neanche il “prima le donne e i bambini” che si usava ai tempi dei galantuomini.
Armiamoci e partite, insomma: nessuno deve essere risparmiato, occhio per occhio e dente per dente. Ironico come la legge del taglione sia un precetto prettamente islamico e sia stato tarato per l'occasione su individui scopertisi all'improvviso paladini armati del cattolicesimo.
Trascendere in polemiche è tuttavia un esercizio a cui mi sono colpevolmente abbandonato a bocce ferme e che non inquadra il problema come l'ho riscontrato io, cioè che i morti non sono mai interessati realmente se non per diventare targhe su un muro.
Come lo è diventata Daniela Bastianutti, vittima del terrorismo di Al Qaeda a Sharm el Sheikh nel 2005, come lo è diventata Benedetta Ciaccia negli attentati di Londra dello stesso anno e come suo malgrado diventerà Valeria Solesin quando di acqua sotto il Pont Neuf ne sarà passata abbastanza.
No, ai commentatori seriali degli attentati di Parigi interessava soprattutto la salvezza dell'individuo e viene il dubbio che quella straordinaria iniziativa #PorteOuverte non avrebbe funzionato in un luogo dove l' "effetto spettatore" è solitamente il primo se non l'unico scenario preso in considerazione.
Senza sprecare tempo a parlare delle bassezze di certa politica e di certa informazione, mi ha piuttosto colpito il concetto de “il modello francese ha fallito” espresso prima ancora che le teste di cuoio risolvessero la situazione in città.
Se non avessi trovato fuori tempo e fuori luogo l'obiezione, avrei sicuramente chiesto ai depositari di tale verità come invece sia fiorito il modello italiano, figlio di una classe dirigente italianissima che ha forzato i suoi figli ad emigrare a volte anche in Francia alla ricerca delle possibilità che qui gli sono state negate.
In fin dei conti c'è sempre un problema terroni, albanesi, immigrati da far diventare bersaglio facile per deviare il tiro e non prendersi certe responsabilità.

Tornando al punto, in quel momento di psicosi collettiva dagli effetti individualisti, mi è tornata in mente una giornata molto particolare: l'8 ottobre del 2001.
Quella mattina nebbiosa seguiva una sera in cui i telegiornali avevano trasmesso in edizione straordinaria le immagini dell'attacco americano a Kabul in risposta all'11 Settembre. Scoppiavano bombe, morivano persone ma il contesto era tutt'altro rispetto a quello di venerdì: sollevato o addirittura quasi festoso perché fissare un'immagine contrastante a quelle dell'11 Settembre equivaleva a pensare di avere vinto contro i terroristi.
A nessuno interessava realmente dove era avvenuto il bombardamento, per quel che si sapeva poteva essere avvenuto in Kiribati o alle Isole Svalbard, ma era avvenuto e il sogno americano era tornato a vincere.
Quella mattina, quella dell'8 ottobre, io ero nella 5°B del mio istituto tecnico a fare lezione quando alla seconda ora entra una compagna di classe che annuncia tremando: “i terroristi hanno fatto saltare un aereo a Linate, ci sono migliaia di morti, io vi saluto e scappo”.
Panico totale: non c'era internet sui telefonini, non c'erano social network, non c'era persino niente da vedere fuori dalla finestra con tutta quella nebbia. Fino a quando non sono tornato a casa ho creduto dentro di me che Milano fosse sotto attacco salvo poi realizzare che si trattò di un incidente.
Anche allora la psicosi prevalse, ma allora dell'Islam non sapevamo veramente nulla, se non che dirottavano aerei per buttare giù torri: anche le pagine web di allora erano tutto sommato poche e con informazioni frammentarie.
Nei 14 anni che sono passati da allora l'umanità occidentale ha “esportato la democrazia” uccidendo civili in diversi stati islamici per poi fare marcia indietro e dire che fu un errore farlo. 14 anni dopo abbiamo tutte le informazioni a portata di mano per non ripetere certi errori.
Grazie alla tecnologia possiamo sapere chi sono i terroristi, chi li ha finanziati, cosa vogliono, come agiscono, perché agiscono ma continuiamo a seguire gli istinti e a scambiare i terrorizzati in fuga per i terroristi in avvicinamento.
Abbiamo fatto un salto impensabile a livello tecnologico nella stessa misura in cui abbiamo subito un'inconcepibile regressione a livello umanistico, che può forse fornire un'esaustiva quanto amara risposta alla mia domanda iniziale: siamo ancora a questo punto perché come umanità non abbiamo operato nessuna vera evoluzione.


Ora che questa birra immaginaria l'ho quasi seccata, amico mio, è tempo che ti dica spicciamente quello che penso: penso che a forza di tirar fuori pensieri sconnessi, stereotipati e fortemente condizionati abbiamo fatto il gioco dei terroristi, che volevano esattamente la nostra paura nella quale sguazzare.
Penso che mentre ci affrettavamo a pubblicare immagini con lo sfondo del tricolore francese abbiamo sputato sopra i principi di egalité e fraternité, come non fosse bastato assistere alla sottrazione della liberté.
Penso che forse ci si doveva fermare a guardarsi in faccia, senza dirsi nulla perchè nulla davvero c'era da dire più di quanto gli eventi non avessero già fatto.
Penso che il silenzio è d'oro e noi lo abbiamo svenduto ai peggiori offerenti.
Penso e basta, perché inesorabilmente tutto questo ça va sans dire.