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venerdì 30 settembre 2016

Zero

Teste basse, mani sui fianchi, sguardi spaesati, gente che cammina senza guardarsi: l'istantanea di Sparta-Inter è tutta qui



Di seguito il mio commento su Sparta Praga-Inter:






































Sì, il nulla. Inesistente come l'Inter ieri sera; loro non spendono energie, io non spendo tempo né parole.
Faccio anche quello che avrei gradito facessero ieri i protagonisti di cotanto scempio: stare zitti, possibilmente rispondendo con i fatti sfruttando un'occasione anche ieri gettata via nel peggiore dei modi, cioè fregandosene.
Non credo serva aggiungere nulla in termini concettuali, perchè zero farà sempre zero a prescindere da come lo moltiplichi.
Zero punti in classifica, zero voglia, zero gioco, zero alibi, zero tempo da spenderci sopra per me.
A Roma rifacciamo e possibilmente bene.
Avanti Inter.

lunedì 26 settembre 2016

Un punto croce, ma Frank delizia





Se partissimo dal risultato per analizzare Inter-Bologna, troveremmo di fatto l'unica cosa della giornata che non sarebbe positiva neanche girandola come un cubo di Rubik; volevamo la vittoria, sapevamo la sua importanza, ma la vittoria in casa contro il Bologna non è arrivata.
In un calcio famelico di risultati al di là di tutto il resto, possiamo considerare questa partita come un'occasione persa e due punti in meno che ci auguriamo non peseranno troppo quando a maggio faremo i conti della serva.

Tuttavia le cattive notizie, per quanto mi riguarda, finiscono qui. 
Perché questo non è il pareggio casalingo scialbo e incolore dell'Inter di Mazzarri, né quello amaro e sciocco dell'Inter di Mancini. Non si toglie nulla al lavoro dei due allenatori che hanno trovato nella loro esperienza anche partite ottime, non si fanno confronti e paragoni: li chiamo in causa solo per riportare alla mente i passi avanti fatti anche attraverso le loro gestioni.

Ieri l'Inter ha regalato i primi 25 minuti di gioco e sul perché abbiamo una controprova: c'era un ingranaggio non funzionante nella catena di montaggio nerazzurra. De Boer l'ha capito e ha fatto qualcosa di severo ma coraggioso in nome del bene della squadra, tirando una bordata a Kondogbia sottoforma di cambio precocissimo facendo intendere poi, anche a parole nel post partita, che chi non segue i dettami della sua gestione è fuori senza passare dal via e senza ritirare le 20mila lire. 
Brozovic lo sta capendo dal lato disciplinare, Kondogbia lo deve capire sul lato tecnico e caratteriale: non si fanno più prigionieri. A prescindere dall'investimento fatto , il calciatore che sbaglia paga perché non è indispensabile.
Non è un caso se una volta entrato Gnoukouri l'Inter ha cambiato ritmo e musica, non certo perché Gnoukouri sia lo Xavi Hernandez dei bei tempi, ma semplicemente perché nell'impianto di squadra tutto deve essere al posto giusto e ogni ingranaggio deve girare a dovere.
Riflettendoci, De Boer era un salto nel buio per tante cose ma non certo per la valorizzazione dei giovani. 
Così Miangue e Gnoukouri non sono più i bimbi a cui concedere ogni tanto la gita premio in mezzo agli adulti, ma risorse che se la possono giocare alla pari con tutti gli altri come ha detto il campo durante la partita di ieri.
La valenza di questo lavoro è doppia, giacché oltre a mettere sulla corda tutta la rosa è anche possibile trovare il modo di colmare i buchi aprendo i cassetti di casa anziché continuare a fare viaggi al supermercato.



Un'altra cosa che ha detto la partita con il Bologna è che il mercato estivo fino a questo momento è stato un fattore e nemmeno da poco: ieri si è visto benissimo chi c'era in più rispetto allo scorso anno (ogni riferimento a Candreva, per me il migliore in campo ieri, non è assolutamente casuale) e chi è mancato scoperchiando inizialmente i problemi già visti lo scorso anno. Dopo tre partite Joao Mario è già ritenuto pilastro portante dalla gran parte della tifoseria e anche ieri si è capito il motivo.
Ieri è sembrato un bel giocatore perfino Ranocchia, facendo la tara a un inizio deficitario è stato prezioso sia in copertura che in fase di impostazione ritrovando una tranquillità per lui problematica quanto la kryptonite per Superman.
Pazienza per il gol fallito a tempo scaduto: fare gol non è il suo mestiere, facendolo avrebbe solo coperto le lacune realizzative mostrate ieri dai compagni preposti a farlo.
Non ci illudiamo, perché una rondine non ha mai fatto primavera, ma chissà che quel testuale "sto lavorando come un cane" non sia il preambolo ad un cambio marcia che lo renderebbe spendibile con maggiore tranquillità durante la stagione. Certamente lui ieri ha sfruttato bene l'inattesa occasione che gli si è parata davanti, dopo il disastro Hapoel.
A proposito, dopo quell'umiliazione lo spogliatoio avrebbe anche potuto implodere o sfasciarsi ed invece ha reagito, segno che l'allenatore inizia a tenere tra le dita il gruppo che gli fu affidato 6 settimane fa.

Manca il risultato ed, intendiamoci, non è poco. Rimangono però le idee, la vitalità, la voglia di rientrare in partita anziché scegliere di liquefarsi come accadeva qualche tempo fa.
Frank De Boer sta iniziando a prendere vera confidenza con la situazione e presto riuscirà anche a farlo in zona mista, dove l'italiano stentato a seguito delle pochissime settimane di esperienza sembra rappresentare ancora un problema per qualcuno. Non importa, Frank pare avere la "cazzimma" per tenere anche le redini della stampa quando padroneggerà la lingua e non sembra mancare molto.

Stiamo ormai capendo che Inter c'è in embrione: identitaria, fluida, dominatrice, coraggiosa.
Solo sapendo accettare gli incidenti di percorso riusciremo a godere di questa squadra al massimo del suo potenziale.
Perché, in nome dell'onestà intellettuale, io non posso alzare la mano se mi avessero detto a metà agosto che avrei visto questa squadra a questo punto del guado stagionale. 
E in qualche modo penso di essere in ottima e nutrita compagnia.

giovedì 22 settembre 2016

Prove generali di grande squadra




Mi ricordo quel tempo in cui andare al Castellani di Empoli era diventata una cosa problematica, figuriamoci in mezzo alla settimana, figuriamoci senza un uomo chiave.
Lo sapevi cosa ti aspettava: pressing alto, marcature a uomo, pugni sui reni impercettibili agli occhi ed avversari assatanati nel voler trasformare un campo di provincia in un terreno disseminato di mine Claymore.
Poteva essere il trappolone di inizio campionato perché, diciamocelo: siamo ormai condizionati dal fatto che negli ultimi anni non abbiamo avuto uno straccio di continuità se non all'inizio della scorsa stagione e soprattutto eravamo abituati a una squadra che alle prime difficoltà perdeva in un attimo la bussola del coraggio.

E invece stavolta questo apparentemente anonimo mercoledì di settembre ci ha riservato una serata da vecchia Inter.
Io non ricordo su due piedi una partita in trasferta degli ultimi due-tre anni condotta con la tranquillità, la solidità, la consapevolezza dell'Inter di ieri sera.
Va bene, l'Empoli non è la rivelazione di Sarri né la conferma di Giampaolo e probabilmente retrocederà in B; ma non è forse vero che se prendiamo le trasferte in casa delle ultime retrocesse troviamo cronologicamente un 2-1 a Carpi con sofferenza finale, un 1-0 a Frosinone con due traverse avversarie e un 3-3 a Verona ripreso per le punte dei capelli?
E questo è solo l'ultimo anno, figuriamoci quelli precedenti.


A Empoli abbiamo visto le prove generali della grande squadra, almeno dal punto di vista mentale, che può diventare l'Inter di De Boer.
Non è detto che ci si riuscirà, ma è innegabile che la squadra vista ieri sera ci abbia trasmesso fiducia, tranquillità, potenza.

Non a caso si esce per la prima volta senza andare sotto e, di conseguenza, senza prendere gol. Non a caso anche questa vittoria nasce a centrocampo, il reparto da cui nella seconda metà della scorsa stagione nascevano i problemi irrisolti nel mercato di gennaio.
Con la valenza tattica di Medel, che se viene consegnato ad un compito di mero equilibrio senza coinvolgerlo in costruzione manovra diventa un giocatore prezioso. Con Kondogbia, che senza strafare o scintillare ha comunque fatto le cose giuste nel modo giusto.

Con questo decisivo rinforzo che è, o quantomeno sembra, Joao Mario: ditemi voi da quanto tempo aspettavamo un centrocampista Box to Box che dominasse in campo senza fare un sacco di fumo, come successo con Guarin.
Ditemi voi da quanto tempo non vedevamo un centrocampista recuperare palla e ribaltare il fronte nella stessa azione, mandando in porta il compagno. Tutto con eleganza e tranquillità. Sensazioni che avevamo ormai smarrito nel mare di giocatori da "Vorrei ma non posso" transitati di qua.





Si scrive sostanza, si legge Candreva: ho fatto fatica a digerire questo acquisto ed i suoi oneri, ma mi sono trovato davanti agli occhi un giocatore intelligente sia dal punto di vista tattico che dal punto di vista dell'atteggiamento.
Un giocatore che non si fa nessun problema a fare il quinto di difesa, il quarto di centrocampo e il terzo d'attacco nella stessa azione, un giocatore che a testa bassa e senza farsi notare troppo risulta un mietitrebbia potente e preciso.
Icardi, che i gol li faceva anche giocando con M'vila e Jonathan, può allora iniziare a svariare sul fronte d'attacco, attirare a sè i centrali, andare a pressare Skorupski anche al 95' facendo ampi gesti alla squadra per alzare il baricentro anche se la partita agonistica è già finita da un pezzo.
Fare reparto da solo non è un tabù per Mauro, che forse aveva solo bisogno di avere una squadra che gli orbitasse attorno nel modo giusto.


E sono tre: tre vittorie consecutive senza fare troppo rumore e senza che venga ritenuto un fatto eccezionale o scintillante, è solo la normalità.
Figuratevi che abbiamo vissuto un tempo in cui la terza vittoria di fila aveva la stessa risonanza del Sacro Graal.
Per molti era stato casuale dominare l'atteggiamento contro la Juventus, per alcuni addirittura era stata la partita più brutta degli ultimi 30 anni.
Per i sacri intoccabili della carta stampata De Boer non sapeva nemmeno da che parte era girato, che tanto serve sempre "il scemo di turno" su cui far leva per consentire a chi non sa nemmeno come si scrive la parola Calcio di svoltare la giornata.

Senza cadere in giudizi estremi ma pensando una partita alla volta, il messaggio da Empoli arriva invece forte e chiaro: la strada è quella giusta e chi si ferma è perduto.
Avanti Inter, per aspera ad astra.

lunedì 19 settembre 2016

E se il campionato fosse una serie TV?



A - LA SERIE: Episodio 1 "Milik e ballacche"


L'episodio si apre con l'incontro tra la passionale Sampdoria, sempre ricca di risorse soprattutto quando può muoversi sul terreno amico e il Milan, simile ad un vecchio Marchese dagli abiti trasandati che si specchia nel suo passato di lustrini e pailettes.
Mi perdo le fasi salienti del loro appuntamento perchè, lo ammetto, preferisco cibarmi di Sushi e farmelo raccontare ma alla fine mi sembra abbastanza chiaro che il Marchese rossonero sbanchi la casa della giovane Sampdoria con l'asso pigliatutto Bacca, una carta sempre al centro di giudizi contrastanti e trancianti ma alla fine sempre vincente.
Può essere che a forza di anni di falsi nove, tre di picche che fanno i re, cinque di fiori che fanno i settebello, donne che fanno i fanti ci siamo dimenticati che chi fa scopa ha sempre ragione. E Bacca le scope le ha sempre fatte.

Mentre il Marchese torna da Genova con nuove ragioni per riacciuffare la giovinezza, nella capitale torna in scena l'eccentrica Lazio, formatasi dopo un'estate di viaggi in tutti gli angoli d'Europa e il patriottico Pescara che ha passato l'ultimo anno nelle migliori sagre d'Italia, da Chiavari a Trapani, tirando su manovalanza del Belpaese strada facendo.
Sullo sfondo della Capitale, l'incontro tra i due personaggi viaggia sulle frequenze de "La fiera dell'Est", della dura a morire "Dragostea din Tei", passando dal turbo folk per poi sfumare nella più generale Balalaika. Inaspettatamente diventa un appuntamento tra bande musicali dell'est in cui gli albanesi capitanati da Memushaj fanno la voce grossa ma falliscono il loro assolo, lasciando campo libero ai serbi di Milinkovic-Savic ed ai rumeni di Radu che suonano invece senza sosta e senza tregua.
Alla fine Pescara ormai appesantito da strumenti che non riescono a farsi sentire subisce anche il tradimento del figliol prodigo Ciro Immobile che un tempo suonava come Jimi Hendrix da questa parte del palco.
Pescara lascia così lo stage e Lazio chiamata dal pubblico per il bis mette a disposizione i biglietti per la data di San Siro.

Poco più in là, in riva al golfo, si suona la musica tradizionale del guascone Napoli che riceve la visita del serafico Bologna, già in passato uscito da casa del guascone con qualche souvenir inaspettato.
Napoli si pavoneggia e si bulla con le sonorità neo melodiche di Insigne ben coadiuvate dalle nacchere di Callejon che colpiscono sempre nel vivo.
Bologna è serafico, ma anche capace di intervenire nel ritmo all'improvviso, obbligando il guascone Napoli a cambiare tutta la scaletta del concerto con una sinfonia di Verdi uscita dal nulla.
Ci vuole l'artiglieria pesante in riva al golfo, prima che la situazione diventi Gomorristicamente calda. Quale occasione migliore per esibire lo strumento principale dell'orchestra, il noto Milikkeballacche?
Ed è subito hit, decibel e bpm che spazzano via Bologna, ora frastornato e spaesato come Balanzone ad un concerto degli Slayer.
Il direttore d'orchestra Sarri, che dirige in tuta perchè gli hanno detto che i direttori in doppiopetto sono tutti democristiani, si compiace e conclude un'altra tappa di successo con il suo solista principale.
Napoli può di nuovo guasconare, davanti a tutti.

Nel frattempo prosegue il rapporto conflittuale tra Udinese, personaggio di ceto medio ma non visto benissimo a causa di uno spesso ingiustificato snobismo e Chievo, operaio dell'impresa Veneta che riesce sempre a sfamare la famiglia sporcandosi le mani coi caporeparto Hetemaj e Cesar.
La discussione tra i due è accesa, con l'astuta mossa padronale di Udinese che manda avanti il bodyguard colombiano Zapata per dominare il confronto. La lotta operaia però è impossibile da estirpare ed ecco allora che il magazziniere Castro segna un punto importante per il picchetto.
Quando i sindacati pregustavano già il compromesso del pareggio, l'addetto al tornio Cacciatore con mossa a sorpresa piazza 5 minuti di straordinari pagati e frega il signorotto sulla campanella di fine giornata. La rivoluzione industriale non finisce mai.

Seguiranno le storie incrociate di alcuni personaggi secondari, come Torino ed Empoli che probabilmente non si ricorderanno neanche di essersi incontrati, o come la sfida tra i caseari Cagliari, il Re del pecorino e Atalanta, la dea del taleggio.
E' domenica per i sapori forti e versatili, sapientemente miscelati da Chef Borriello che fa tesoro della sua giovinezza da marinaio con tre-quattro donne per ogni porto e serve al pubblico piatti irresistibilmente incisivi. Il suo sous-chef è il locale Marco Sau che attraverso il gusto della tradizione manda definitivamente a casa Atalanta e tutto il suo taleggio in avanzo: speriamo che nelle terre amiche della bergamasca sia poi venuta fuori una risottata come Dio, anzi la Dea, comanda.
Interessante lezione del ragazzino prodigio Sassuolo all'antico maestro Genoa, che mentre gli ricorda che a fine ottocento loro giocavano anche a cricket viene bruscamente riportato nel presente dal surplace dei ragazzini emiliani sulle biciclette che prendono il largo e si preparano a un'altra stagione da enfants terribles, tipo quelli che "Noi siamo gli intoccabili e voi ci avete rotto" di epoche ormai andate.
Quasi perde interesse lo sperduto rendez-vous tra il timido Crotone e l'inguaiato Palermo che passa sottotraccia, col sospetto che entrambi si ritroveranno l'anno prossimo tra una trattoria a Benevento e uno stornello ad Ascoli o a Terni. Nel frattempo l'ex cecchino macedone Nestorovski torna all'antica e colpisce.

Nel tardo pomeriggio, tra i vicoli già noti per la Milano da Bere, si scontrano nuovamente due ataviche nemiche: da una parte c'è Inter, una eterna adolescente nota anche come Beneamata, reduce da un passato denso di delusioni d'amore ma anche di notti lussuriose e tremendamente goderecce. Discendente di un nobile passato della casata Bauscia e forse fin troppo viziata da papà Massimo nel recente passato, ora si fa vedere in giro con il suo nuovo compagno cinese.
Dicono che sia un buon partito e che soprattutto faccia sul serio, anche se dovrà fare il possibile e anche l'impossibile per farsi accettare dalla famiglia aristocratica.
Avanti a sè, ecco Juventus: ex rampolla di una nota famiglia di industriali, ha la sua età ma si mantiene affascinante per qualcuno e spocchiosa per qualcun altro. Si dice la chiamino Vecchia Signora a causa della sua lunga storia di presunta amante dei potenti, ma chi la conosce bene sostiene siano solo dicerie.
Non vanno d'accordo Beneamata e Vecchia Signora: anni fa si contesero a lungo lo stesso uomo, poi l'una accusò l'altra di averlo rubato con mezzi illeciti. La vicenda finì in tribunale e l'acredine rimane viva a un decennio di distanza da quell'evento, senza che nessuna delle due abbia la minima intenzione di deporre le armi.
Beneamata, uscita da un periodo turbolento in cui ha di nuovo cambiato amicizie non è certa di poter battere la Vecchia Signora, abile e scaltra a rifarsi il look in estate spendendo una fortuna in cosmetici, abiti e orpelli vari. Sarà però proprio la spocchia a tradire la Vecchia Signora, che si presenta allo scontro di Milano in abiti più sobri del previsto quasi a voler dileggiare la sua rivale e contendente, Beneamata, che al contrario si ricorda di essere bella e pure tosta nel momento giusto. Ma, come sempre, non finirà certo qua.

Ultima scena della puntata dedicata alla ruspante Fiorentina, circondata da gigli ovunque si trovi e affidata alle cure di un ombroso uomo dalla carnagione mediterranea che pare l'abbia resa più bella qualche tempo fa, per poi attraversare un momento di crisi che non ha comunque separato i destini dei due. L'incontro è con Roma, una donna smarrita nella grandezza della sua provenienza tanto da definirsi spesso vincitrice morale di questo e quell'incontro.
L'incontro è cromaticamente un disastro; passi per Fiorentina, abituata a vestirsi di viola, ma gli abiti con cui si presenta Roma sarebbero inguardabili perfino ad una festa in maschera. Roma, affiancata dall'inseparabile compagno Francesco mai troppo anziano per lei, avrà l'occasione di stanare la coriacea Fiorentina che alla fine però riuscirà a prevalere grazie ai suoi amici croati, presenti per l'occasione, e alle loro specialità illusionistiche che faranno apparire valido un argomento in realtà non consentito.
Si dice che il personal trainer di Roma, Sor Luciano, non l'abbia presa affatto bene.

NEL PROSSIMO EPISODIO: Il guascone cercherà di suonarle al vecchio maestro e grande amico Genoa; la Vecchia Signora che schiuma rabbia per la beffa milanese torna a casa per divorarsi pecorino e pane guttiau; Roma e Sor Luciano cercheranno di sfogare la loro grandeur sull'introverso Crotone; la Beneamata dovrà uscire dai nobili ambienti meneghini per affrontare un nuovo ostacolo nella provincia toscana. 

Ho visto Inter-Juventus




Ho visto Inter-Juventus.
Ricordo perfettamente la sensazione nell'immediato prepartita, una cosa tipo "oggi
scendiamo agli inferi" che si mescolava con "Sì però vuoi mettere le emozioni di una
partita così?".
Non mi aspettavo niente se non l'impegno e l'orgoglio fino al fischio finale, mi
sarebbe andato bene a prescindere dal risultato.

Poi inizia a parlare il campo ed inizia a dire cose intelligenti, approfondite,
soddisfacenti e non concepisci la scena muta di tre giorni prima.
Certo, Khedira si libera subito (non sarà l'ultima volta) anche se in offside.
Certo, si vede che Dybala è di un'altra categoria e che si sta prendendo in mano la
squadra.
Però butti un occhio in mezzo al campo e inizi a vedere cose decisamente interessanti
e, nella nostra situazione, innovative.
Tipo Joao Mario e Banega che iniziano a scambiarsi le posizioni ed a giocare
vicendevolmente ora da interno, ora da trequartista. Joao Mario è quello dei 45
milioni ed è facile da ricordare, ma di Banega il parametro zero si ricordano in
pochi.
E fanno male: perché in un piacevole senso di organizzazione e chiarezza tattica a cui
non si era più abituati, succede che Candreva ed Eder scendono sulla linea dei
centrocampisti quando c'è la Juve in attacco e che proprio Banega resti 10 metri più
avanti pronto a giostrare la ripartenza.
Everything in its right place, direbbero i Radiohead. Finalmente, dico io.
Infatti, indovinate un po'? Medel, completamente scaricato da qualunque compito di
costruzione e dedicato al 100% all'equilibrio difensivo della squadra inizia a fare un
figurone.
Davanti Icardi si muove, lotta, sportella e rischia anche di fare l'eurogol alla
Milito sotto gli occhi del Principe stesso; ci riesce anche perché Eder è in
buonissima vena, sdoppiandosi tra il lavoro in fascia e l'appoggio a Mauro.



Certo, la Juve è la Juve ed è forte, ma si inizia a vedere che ce la stiamo giocando
alla pari e che forse ai punti qualche giudice sceso da un altro pianeta perfino ci
premierebbe. Nel calcio però vincono i gol e i migliori risolutori sulla carta ce li
hanno loro, anche se Allegri ci usa la cortesia di tenere Higuain a passare le
borracce dalla panchina.
Subentra all'intervallo il pensiero di un calo fisico che vanificherebbe il buonissimo
primo tempo. E se caliamo facciamo confusione e se facciamo confusione ci puniscono e
poi domani i titolatissimi allenatori imbucati nelle redazioni ci dicono che dobbiamo
vergognarci e magari qualcuno ci crede pure.

Ripartiamo, lisci come una Vodka Belvedere che ci tiene su di giri soprattutto perché
la Juventus ha gli stessi identici problemi della prima frazione. Pjanic lo farei
giocare in modo diverso, penso, mentre Joao Mario supera Asamoah col braccio fuori dal
finestrino e innesca l'ennesima azione d'attacco.
Ancora una volta idee chiare, spirito di squadra e pressione senza tregua: la Juve
sarà pure nettamente più forte ma da quella metacampo non sta uscendo da 15 minuti
buoni.
Tutto bello, tutto gradevole: ma i gol? Si vince così in questo gioco, no?
Succede quello che non deve succedere: Alex Sandro (prestazione maiuscola) scherza
D'Ambrosio, centra in mezzo, gol di Lichsteiner. E allora già pensi che la Juve vince
anche quando gioca male, che sono segnali, che dovrai difenderti dai giornali che
faranno passare di nuovo De Boer per un avvinazzato del bar di paese nonostante abbia
palesemente prevalso sul piano tattico.
Sei stato all'inferno giovedì, ti hanno massacrato venerdì, ti hanno ridicolizzato
sabato, domenica giochi nettamente meglio del migliore degli avversari e vai sotto.
Per me tutto finito, perché dai: chi ci crede che dopo sta settimana rimonti la Juve?

Dimenticanza fondamentale: gli Dei del calcio non seguono logica, né consequenzialità
in partite così.
E allora c'è Icardi che salta in testa a tutti e la riprende perché diciamolo, porca
miseria: è giusto così! Per una volta che giochiamo visibilmente meglio della Juve,
sotto gli occhi di chi stava già spulciando gli archivi per prevedere l'ultima goleada
bianconera, quello che è nostro ce lo prendiamo.
Anzi, ce lo prendiamo con gli interessi visto che il tintinnino di Asamoah convertito
in cioccolatino da un Icardi mostruoso, viene scartato come un Bacio Perugina da
Perisic entrato poco prima.
All'interno, sul bigliettino, c'è una frase dedicata a tifosi troppo innamorati per
ragionare e soloni troppo leccapiedi per informare:
puoi cambiare 19 allenatori a settimana, ma se giochi da squadra vinci. Con merito.
Anche rimontando. Anche contro questi qua, che vinceranno il campionato.
Anche se non ti alzi dalla panchina durante il match. Anche se non parli italiano.
Anche se hai fatto fuori Brozovic, come Mou fece fuori Balotelli prima del Chelsea.



Al fischio finale, tra il godimento della mia gente e la resa di quei tifosi juventini
che fanno i complimenti all'avversario riversando ogni colpa sull'autocritica mi rendo
conto che mancano due cose: la presenza di Tagliavento, che non ho percepito più del
previsto pur facilitato da una partita molto corretta, e le scuse a caratteri cubitali
a De Boer che nessuno farà perché, si sa, c'è la libertà di opinione anche se sconfina
nello sciacallaggio più becero.
Ma in realtà non mi importa davvero più di tanto, ormai.

Ho visto Inter-Juventus.
Ho visto l'alba di un giorno nuovo.

giovedì 15 settembre 2016

Next Big Things Ep. 2: JOSIP BREKALO


Next Big Things è un viaggio alla ricerca di grandi talenti tra gli Under 20 di tutto il mondo.
Non ci sono velleità di scouting professionale o altre presunzioni del genere in questa rubrica, ma semplicemente il piacere di far conoscere e condividere alcuni potenziali protagonisti del futuro calcistico.
In questo episodio parliamo di Josip Brekalo.



Chi ha seguito il mondiale Under 17 di poco meno di un anno fa, vinto poi dalla Nigeria, non può essersi fatto sfuggire la Croazia e la sua nuova generazione di
talenti: la nazionale balcanica, pur avendo salutato il torneo ai quarti, è stata una
delle più divertenti ed interessanti squadre della manifestazione.
Tra le stelline croate ha brillato anche quella di Josip Brekalo: 18 anni appena
compiuti, nato in quel 1998 che ha rivelato al mondo la splendida Croazia di Suker e
Boban, Brekalo è già un calciatore su cui fare qualcosa in più di una scommessa al
buio.

A Josip è infatti bastata mezza stagione tra i grandi della Dinamo Zagabria per
guadagnarsi le lusinghe di molti club europei, ai cui occhi attenti non è sfuggita la
trafila del ragazzo nelle giovanili dei "Modri" ove ha vinto in quasi tutte le
categorie ed è stato protagonista della prima fase di Uefa Youth League dello scorso
anno. Tra le pretendenti c'era anche l'Inter, che nell'osservare Marko Pjaca aveva
messo gli occhi su colui che sembra essere l'erede naturale di Ivan Perišić, per
nazionalità e per ruolo.
Ciò che colpisce di Brekalo è la maturità tattica il cui processo sembra già aver
bruciato le tappe, essendo il ragazzo votato al sacrificio nel ripiegamento che lo
rende spendibile anche come laterale di un centrocampo a quattro: una caratteristica
rara nei nuovi talenti offensivi che devono normalmente curare soprattutto questo aspetto del gioco per arrivare al salto di qualità.

Dotato di una buonissima tecnica di base, Brekalo è un brevilineo che si scatena in
accelerazione abbinando un controllo di palla convincente ed un dribbling già
piuttosto interessante nello stretto.
A molti, tra cui l'ex Parma Mario Stanic, Brekalo ricorda per caratteristiche fisiche
e potenziale tecnico il fuoriclasse Franck Ribery, soprattutto per la dimestichezza
dimostrata sia con i gol che con gli assist che la tipica azione partendo da sinistra,
con il taglio centrale e la battuta col destro; tuttavia non se la cava male nemmeno
col mancino, creando un'importante alternativa direzionale nel momento in cui parte
sulla fascia.

L'intrigante quadro tecnico, unito ad uno status mentale che promette una carriera da
meticoloso professionista, ha immediatamente attirato i club della Bundesliga da
sempre abili nel mettere gli occhi prima di tutti gli altri sui ragazzi più
promettenti della penisola balcanica.Lo scorso 15 maggio l'ha spuntata il Wolfsburg, capace di mettere avanti 6 milioni di euro per un ragazzo all'epoca non ancora maggiorenne; come detto in precedenza puntare su Brekalo sembra qualcosa in più di una scommessa al buio, nella storia della Dinamo Zagabria solo Mateo Kovacic a pari età aveva fruttato più denari.





Sotto la guida di Hecking, Brekalo dovrà farsi le ossa dietro al quotatissimo Draxler
che occupa quel ruolo nei Lupi di Germania: l'esordio proprio sabato scorso, 10 minuti
nel pareggio contro il Colonia per prendere confidenza con la Bundesliga.
Non finirà certo qua per Josip, pronto alla corsa a tappe per diventare qualcuno nel
mondo del calcio: uno nato in Croazia durante i mondiali del 1998, in fondo, può
essere benissimo un predestinato.


CLICCA QUA PER L'EPISODIO 1: LEON BAILEY

martedì 13 settembre 2016

Next Big Things Ep. 1: LEON BAILEY


Next Big Things è un viaggio alla ricerca di grandi talenti tra gli Under 20 di tutto il mondo.
Non ci sono velleità di scouting professionale o altre presunzioni del genere in questa rubrica, ma semplicemente il piacere di far conoscere e condividere alcuni potenziali protagonisti del futuro calcistico.
In questo episodio parliamo di Leon Bailey.



19 anni appena compiuti ed umili natali in un sobborgo di Kingston, capitale della Jamaica; raramente il paese caraibico produce talenti nel calcio, ma Bailey sembra davvero la classica mosca bianca.
Leon in Belgio ci arriva a 15 anni, ma qualcosa va storto: il suo agente ha in mano dei visti falsi che si traducono nella permanenza illegale nel paese, a margine della quale il ragazzino e i suoi rappresentanti spariscono nel nulla prima di ricomparire ad Amsterdam dove Bailey svolge qualche allenamento con l'Academy dell'Ajax che non basteranno per l'inserimento in squadra, nonostante Ronald De Boer ne riconosca immediatamente i mezzi atletici fuori dal comune, in particolare velocità ed agilità, abbinati ad una buona tecnica.

Bailey si trasferisce al Trencin, in Slovacchia, dove si consacra a livello giovanile attirando a sè anche le attenzioni di Piet De Visser, uno dei top scout del Chelsea, che prova a portarlo a Londra nell'estate 2015.
Tutto inutile, perchè Bailey sceglie di chiudere il cerchio della sua adolescenza e di tornare dove aveva cominciato: al Racing Genk, in Belgio, non proprio una tappa di formazione qualunque se si pensa che da lì sono usciti Courtois, De Bruyne e Carrasco tra gli altri.
Il ritorno in Belgio è un successo: alla sua prima stagione da professionista, Bailey gioca 42 partite segnando 7 gol e servendo 11 assist, guadagnandosi a fine stagione il titolo di Miglior Giovane della Jupiler Pro League belga.



Ma che tipo di giocatore è il ragazzo caraibico?
Il suo potente atletismo, portato in dote dalla terra di Usain Bolt, lo ha reso un'ala esplosiva che può giocare indifferentemente a sinistra e a destra pur usando quasi esclusivamente il piede mancino.
Il suo uno contro uno si è dimostrato mortifero in Belgio, ben pochi difensori sono usciti dal duello con lui senza una piccola emicrania; gioca a testa alta, con quella tranquillità quasi incosciente che lo porta a far sembrare facili cose che sono difficili in proporzione all'età.
Ha spesso l'intuizione dell'ultimo passaggio e la sua tendenza a convergere unita a una visione di gioco in crescita può far presupporre la chance di imparare il gioco da trequartista puro.
I problemi più urgenti da risolvere per Bailey sono quelli della fase difensiva, in un calcio che chiede sempre più agli esterni di parteciparvi Bailey se ne dimentica spesso e volentieri senza tuttavia andare ad inficiare, per ora, le prestazioni. Inoltre, nonostante le doti di assistman dimostrate, tende ancora ad innamorarsi troppo del pallone.
Il classe '97 ha rifiutato la nazionale maggiore della Jamaica per giocarsi le sue carte con la rappresentativa belga per cui maturerà i requisiti a breve.
Quest'anno, oltre a consacrarsi col Genk, ci sarà anche il battesimo continentale in Europa League dove il suo club affronterà anche il Sassuolo nella fase a gironi: una buona opportunità per vedere nel nostro paese un talento che tra un annetto o due potremmo ritrovare su palcoscenici ancor più scintillanti.

martedì 6 settembre 2016

Cosa resterà di Yaya Toure?

"Yaya Toure è un giocatore che in Italia non si è mai visto!", tuonava Mancini ai tempi dell'ultimo calciomercato. Era ieri, ma sembra trascorsa un'eternità.
Ora il problema principale per il gigante ivoriano è che non solo non si vedrà in Italia, ma rischia di non vedersi più in assoluto nei palcoscenici che contano.

L'esclusione dalla lista Champions riservatagli da Guardiola è stato un evento che non ha destato poi tanto scalpore, come se fosse lecito aspettarsi che nel calcio dinamico di Pep un posto per Toure sarebbe stato difficile da trovare.
Dunque ci si trova in una empasse apparentemente paradossale: perchè un giocatore considerato da alcuni al top dei top, come suggerirebbe l'ingaggio, non fa parlare sufficientemente di sè nel momento in cui viene accantonato?
La risposta più verosimile appare quella più banale: Yaya Toure non è un top player o quantomeno non lo è più.
Non potrebbe essere diversamente, in un calcio che va talmente veloce da aver ad esempio reputato un bluff quel bel giocatore di Eden Hazard, annichilito dall'annata storta del Chelsea.
Stesso dicasi per Fabregas, considerato oggi da una buona fetta di pubblico un giocatore finito all'alba dei 29 anni.



Non sono i giudizi quelli che interessano maggiormente, ma i numeri:
33 sono le primavere sulle spalle del protetto di Mancini, forse oggettivamente troppi per poter avallare una follia pecuniaria al solo scopo di puntare su un granatiere nel tempo che gli rimane a determinati livelli.
8 sono le reti segnate nelle 47 partite a cui Toure ha partecipato nella'ultima stagione, numeri lontani anni luce da quelli devastanti del 2013/14 ed in costante calo nelle ultime due stagioni, in cui i tifosi hanno visto il suo nome più sui giornali che sulla casacca portata in campo.
86.5 % è la percentuale di passaggi riusciti nella scorsa Premier League, uno score di tutto rispetto ma lontana dal 90.1% della stagione 2013/14, l'ultima che legittimò Toure come un giocatore top su scala planetaria: anche in questo caso i numeri raccontano una discesa costante ed inarrestabile.




Dimitri Seluk, agente del giocatore già alla ribalta delle cronache per essersi impermalosito dopo i mancati auguri di compleanno del City al suo assistito e per le piroette mediatiche usando come sponda altri club per strappare il solito faraonico contratto, ha dichiarato senza giri di parole: "Se Guardiola vince la Champions andrò in televisione a dire che è il miglior allenatore del mondo, ma se non la vince spero abbia le palle di ammettere l'errore fatto nell'umiliare un giocatore del livello di Yaya".
Ora, io non sono affatto convinto che Guardiola sia infallibile, dopo aver fatalmente toppato la gestione di Ibrahimovic ed essersi messo contro quasi l'intero ambiente al Bayern, ma sono certamente convinto che se il City non vincerà la sua prima Coppa dalle grandi orecchie non sarà affatto una questione prettamente dovuta alla presenza o assenza di Yaya Toure, visto e considerato che con Yaya al massimo delle sue possibilità il City la coppa non la vide nemmeno da lontano.

Ciò che sarebbe stato logico e ad un certo punto anche gradito, sarebbe stata una scelta da parte del giocatore più a contatto con una realtà che lo stava già vedendo scivolare dalle zone nobili del gotha mondiale.
Toure avrebbe potuto accettare l'Inter nel 2015, a 32 anni, rinunciando sì a una parte di ingaggio, senza però essere preso per il collo in ambito pecuniario; se Pirlo, che certamente poteva esprimersi anche da fermo, accettò i 4 milioni annui della Juventus a 32 anni, non si comprende esattamente perchè Toure se ne sarebbe dovuti meritare il triplo.


Ora che il treno è passato, ora che Mancini è a spasso, ora che Guardiola ha nel radar tutt'altra situazione, ora che la Champions è comunque una chimera, potrebbe essere terapeutico per giocatore e agente farsi una semplice domanda: "Cosa resterà di Yaya Toure?".
La risposta, schietta e lucida, andrà trovata prima che pubblico ed addetti ai lavori smettano definitivamente di cercarla.

lunedì 5 settembre 2016

Benvenuti in Europa: la prima volta del Kosovo


Le qualificazioni mondiali, per i paesi abituati a considerarle una fastidiosa anticamera, non hanno certo un grande appeal.
Per qualcuno però, la data di stasera è una di quelle da segnare sul calendario col 
pennarello indelebile e consegnare ai posteri scrivendo "io c'ero".
Così un apparentemente anonimo match tra Finlandia e Kosovo diventa storia scolpita 
nella pietra, perché è la prima partita ufficiale di sempre per la piccola ed 
autoproclamata Repubblica balcanica.

A dirla tutta, è un miracolo pressoché imprevedibile fino a pochi anni fa il fatto che 
questa rappresentativa possa avere una chance per i Mondiali: una Repubblica non 
riconosciuta da ben 73 paesi Onu, per la maggior parte dei quali il Kosovo è un nervo 
scoperto che rischia di creare quel precedente utile a rintuzzare le scintille 
separatiste sparse nel mondo (in testa Spagna ed Israele, ma anche la Russia che 
ospita la fase finale del torneo), all'improvviso si ritrova con un invito al gran 
ballo della Coppa del Mondo al pari dei paesi con grande tradizione e tutt'altra 
situazione socio-politica.

Sì, perché il Kosovo funestato dal conflitto di fine anni '90 non è mai davvero 
rinato: la povertà è diffusa, le principali fonti di ricchezza (soprattutto miniere) 
contese da quella Serbia che non ha mai smesso di considerare quel territorio una 
propria provincia, la situazione politica instabile e carica di tensione latente.
A Mitrovica, 300mila anime, si percepisce tutta l'astrazione del Kosovo come entità a 
sè stante: la città è spaccata in due, con la rappresentanza serba a nord e quella 
albanese a sud rappresentate da due diversi sindaci e con il confine tra le due 
enclavi rappresentato da un'aiuola, beffardamente battezzata "Giardino della Pace", su 
un ponte sorvegliato 24 ore su 24 che rende impossibile il transito dei veicoli.
E anche se il ponte in questione è prossimo alla riapertura nell'arco del prossimo anno, non tutti sembrano essere davvero d'accordo su questa prova di coesione e dialogo.
Come non bastasse, l'informazione è censurata ove non influenzata dalle forze 
politiche e l'esodo verso l'area Schengen è ancora quotidiana e non sempre legale, nè 
in carrozze di prima classe.




Non che la situazione attorno alla squadra che esordisce stasera sia paradisiaca: i 
migliori giocatori eleggibili sono sparsi per l'Europa, nei rispettivi paesi in cui le 
loro famiglie in fuga dalla guerra approdarono a suo tempo.
Su tutti la Svizzera, ove giocano i maggiori talenti prodotti nativamente dal Kosovo 
come Valon Behrami, Xherdan Shaqiri e Granit Xhaka che ha spiegato come a malincuore 
non avrebbe più potuto cambiare nazionale avendo giocato l'Europeo, facendo il gioco 
della federazione elvetica molto preoccupata da un possibile esodo dei propri 
giocatori che lascerebbe la nazionale allenata da Petkovic quasi in braghe di tela.
O come Januzaj, che invece ha scelto spontaneamente di rappresentare il Belgio.
O come i vari albanesi che potrebbero giocare per il Kosovo rischiando però di passare 
per traditori che lasciano la nave Albania sul più bello, con l'Europeo giocato e con 
nuove speranze di qualificazione in agenda.
O come il centrocampista del Chievo Hetemaj, arrivato in Finlandia poco più che in 
fasce e che non se l'è sentita di rispondere alla convocazione per giocare stasera 
contro la rappresentativa della sua terra natìa.

A prescindere da tutti i problemi di natura socio-politico-economica, la realtà dei 
fatti è che il Kosovo da stasera gioca per i Mondiali in uno dei pochissimi gruppi in 
cui avrebbe potuto essere inserito senza rischiare di causare cataclismi diplomatici 
quali ad esempio trovare Serbia o Bosnia, ma anche l'Albania nella quale giocherà le 
partite in casa, a Scutari, per l'inagibilità a questo livello dell'impianto di 
Pristina.

E allora per un'ora e mezza si possono anche lasciare i guai fuori dalla porta e 
lasciare che l'orgoglio di avere una rappresentativa in giro per il continente 
prevalga.
Benvenuto in Europa, piccolo Kosovo: le grandi storie, a volte, iniziano anche così.